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Basta con gli inutili thriller che ti costringono a leggere 200 pagine per rivelarti che il colpevole è il maggiordomo. Provate a seguire dappresso il commissario Manente, protagonista de "La tela del Doge" (Cairo editore), sulle tracce di un assassino e non scoprirete solo una fitta trama criminale nella quale si muovono i superstiti della Mala del Brenta, qualche ragazzo traviato della Venezia-bene e anche un politico di primo piano: scoprirete anche, attraversando con il segugio il Ponte delle Tette, il Campo di S. Isepo o il Rio terrà degli Assassini, calli e fondamenta di una Venezia "minore", non ancora percorsa da frotte di turisti, eppure ricca di storia e di leggende.
Poiché l'eroe di questo primo romanzo del giornalista-economista Paolo Forcellini, veneziano doc, oltre a essere un provetto segugio è anche un gran gaudente, il lettore che lo accompagna nel suo girovagare per la città lagunare ha anche l'opportunità di conoscere bacari e trattorie spesso fuori dal circuito dei "foresti", nelle callette più "sconte", cioè nascoste, dove si possono trovare i migliori cicchetti e i meno conosciuti ma più tradizionali piatti di pesce della laguna e dell'Adriatico.
Una chance non da poco in una città dove, se non hai la dritta giusta, gli osti e i ristoratori ti levano anche le mutande o ti propinano una pizza surgelata della peggior specie. Quello che a prima vista appare a Manente un omicidio causato dalla gelosia o un regolamento dei conti nell'ambito della mala, poco a poco si rivela un affaire complesso nel quale entrano il furto di una famosissima opera d'arte, malviventi professionisti e balordi dilettanti.
Fra questi ultimi, alcuni giovani di buona famiglia che hanno frequentato il liceo classico più quotato della Serenissima, il "Marco Polo", dove, per intenderci, hanno studiato i Cacciari e i De Michelis, e altri, con più muscoli che testa, la cui scuola principale è stata il riformatorio.
Il commissario, malgrado le molte "ombre" di vino e gli spritz che si scola a ogni piè sospinto, come si muove a suo agio nel "caigo" veneziano e tra le maschere di quei giorni di Carnevale, riesce a diradare anche il nebbione dietro cui si nascondono i colpevoli di efferati delitti.
E ci riesce anche perché, oltre a essere un segugio con un gran naso, è uomo che ha un concetto molto elastico di "tutela dell'ordine": è politicamente scorretto, capace di finire a letto con un'indiziata e comunque disposto a dribblare tutte le regole, anche le più sacre, pur di arrivare a mettere in gabbia quello che lui ritiene un colpevole.
Manente non si nega niente: fuma come un vulcano attivo, beve quasi solo i migliori vini del triveneto e non sa resistere alla bellezza femminile, per la verità a resistere non ci prova proprio. E poi mangia, senza curarsi troppo della linea: da solo, nelle pause del lavoro, o più spesso in compagnia di donne fascinose, si concede prelibatezze come le "canoce", gli scampi fritti, le "moeche", le capesante e i "peoci" gratinati, i "folpeti" e la polenta con le "schie". Gli indirizzi giusti? Li trovate tutti ne "La tela del Doge".
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