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BONA QUESTA! ''LA POESIA? È VIVERE VERTICALMENTE CIÒ CHE GLI ALTRI DI SOLITO SUBISCONO ORIZZONTALMENTE” - IL POETA E TRADUTTORE DI RIMBAUD INTERVISTATO DA GNOLI: ''A VOLTE PENSO CHE LA VITA SIA TUTTO QUELLO CHE NON SAPPIANO E NON SAPREMO MAI" - “L’INVIDIA LETTERARIA ESISTE. MONTALE DOPO IL NOBEL ASSEGNATO A QUASIMODO DISSE: C'È MODO E "QUASIMODO" DI FARE POESIA!"

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Antonio Gnoli per “la Repubblica”

 

Non conoscevo personalmente Gian Piero Bona: un fisico da vecchio etnologo avvezzo a tutte le esplorazioni. Compirà novant' anni a novembre. Ci tiene a dirmi che è dello Scorpione, nonché esperto di astri. Mi attende con pazienza alla stazione di Torino.

 

Guida una piccola macchina che ci porterà fino a Moncalieri dove vive in un' antica villa di famiglia. Il posto, nonostante i colori spenti del pomeriggio, è bellissimo: «Prima che mia nonna l' acquistasse, era il pensionato dei frati cistercensi. Qui trascorrevano gli ultimi anni della loro vita. Ancora sento nelle narici l' odore di vecchiaie enfatizzate e di preghiere perse tra il vento delle colline».

 

Si capisce, immediatamente, che Bona è anche un poeta. Lo è in proprio. Ma anche al servizio di altri. Le sue traduzioni di Rimbaud sono pregevoli. Si definisce un cosmopolita dell' anima.

 

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Ha vissuto a lungo in Asia minore, in Egitto e in Grecia. È un appassionato di filosofie orientali, di esoterismo e di letteratura magica. Per molti anni ha vissuto a Roma, lavorando come sceneggiatore per la televisione. Suo lo splendido adattamento dell' Odissea di Franco Rossi. Scrive romanzi. L' ultimo dei quali, L' amico ebreo, appena uscito da Ponte alle Grazie, narra una vicenda vera svoltasi durante gli anni della guerra.

 

Lei è nato da queste parti?

«Sono nato a Carignano e vivo, qui a Moncalieri, in questa villa che non mi appartiene più».

 

Nel senso?

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«È stata ceduta, ne detengo solo l' usufrutto. Non mi dispiace, intendiamoci. Siamo di passaggio. Come gli ospiti che ho avuto. Qui vennero Jean Cocteau e Eugène Ionesco. Ma parliamo di un' altra era, quando la conversazione e la curiosità erano strumenti dell' intelligenza».

 

Come li aveva conosciuti?

«Cocteau apprezzò la mia poesia. Sul finire degli anni Cinquanta uscì una versione francese della mia raccolta I giorni delusi. Cocteau la lesse e ne restò colpito. Scrisse all' editore chiedendo di contattarmi. Conobbi così un uomo raffinato. Dagli amori brucianti.

 

Aveva conosciuto Proust e frequentato il meglio del mondo letterario francese. Si innamorò perdutamente di Jean Marais, una relazione che iniziò negli anni Trenta e finì con la sua morte ».

 

E Ionesco?

«Il contatto ci fu grazie a un dentista di Torino amico della figlia, Marie-France. La invitai, insieme al padre, a una mia commedia, Le Tigri, e successivamente a passare un fine settimana qui da me. Trascorremmo due giorni estremamente piacevoli. Parlammo molto del suo teatro. Gli chiesi come considerava Beckett. Disse che sia lui che Beckett venivano dallo stesso padre: Alfred Jarry.

 

Poi, guardandomi con la sua faccia da clown, aggiunse che Dio aveva reso assurde le lingue per vendicarsi dell' assurdità dell' uomo e che lui non faceva che ripetere ciò che avrebbe dovuto essere evidente a tutti».

GIAN PIERO BONA 2GIAN PIERO BONA 2

 

Evidente cosa?

«Il naufragio della contemporaneità. Il caos, l' incomprensione, l' ingiustizia. Per raccontare tutto questo Ionesco usò estro e sarcasmo. Ma anche la memoria per quanto aveva subito in Romania, da dove era scappato dopo l' avvento del regime comunista. Quel giorno, in cui le sue lacrime improvvise scesero, mi parlò dell' amico Horia Vintila, un poeta con un trascorso di fascista che era stato anche amico di Giovanni Papini.

 

Quando il regime di Ceausescu seppe che ad Horia era stato assegnato il Premio Goncourt gli scatenò una violenta campagna di diffamazione fino a costringerlo rinunciare. Eravamo nella biblioteca quando Ionesco mi raccontò la feroce ingiustizia che aveva avuto come protagonista il suo amico».

 

Sempre in questa casa si svolse la vicenda dell'"amico ebreo"?

COCTEAUCOCTEAU

«No, la storia di quella lontana amicizia ebbe come sfondo la villa di famiglia a Carignano. Durante la ritirata dei tedeschi fu requisita un' ala e messa a disposizione di un comandante delle Ss, patito della musica italiana. Il capitano Richtel aveva velleità di cantante per questo lo avevamo soprannominato "Do-di-petto". Un giorno, davanti al pianoforte, disse con fierezza che era stato organista nella cattedrale di Brema».

 

In quella stessa villa nascondevate un ragazzo ebreo.

«La sua famiglia era fuggita dalla Russia nei primi anni Venti. Si stabilì a Torino. Conobbi il giovane Sergej al conservatorio. Studiavamo entrambi musica. La madre, Bella Hutter, era stata una grande danzatrice Poi vennero le leggi razziali. E di nuovo la famiglia tornò in fuga. Sergej finì nascosto tra le mura della villa. Era il 1943».

 

Come era possibile la coabitazione con l' ufficiale delle SS?

RIMBAUDRIMBAUD

«Dicemmo che era un nostro lontano cugino. Durante le sere ci riunivamo tutti in biblioteca. Mio padre leggeva, mia madre disegnava. Io facevo i tarocchi. A volte con Sergej e il capitano Richter ci alternavamo al pianoforte. C' era una quiete surreale che sarebbe piaciuta a Ionesco ».

 

Suo padre cosa faceva?

«Era un imprenditore. Proveniva da una famiglia molto agiata. Industriali lanieri arrivati da Biella. Oltre la villa di Carignano aveva fatto costruire a un allievo di Piacentini una villa a San Vito che nel 1945 fu occupata, per un breve periodo, dal comando americano che pensò bene di ospitarvi una serie di attori hollywoodiani incuriositi dal nostro cinema. Tra cui Lana Turner».

 

L' ha conosciuta?

LANA TURNERLANA TURNER

«La incrociai insieme al suo amante Lex Barker, un attore che avrebbe sposato qualche tempo dopo. Mi apparve una donna bellissima e barcollante. Il platino dei capelli

contrastava con il colore rosso bruno delle bottiglie di whisky. Un giorno, nella grande cucina, mia madre la scoprì totalmente sbronza. Scambiandola per la cuoca, al servizio del comando americano, la rimproverò. Confusamente lei balbettò sono Lana Turner. Gli attori spesso sono creature fragili».

 

Si è mai sentito fragile?

«Se allude alla mia omosessualità le rispondo che non è mai stato un serio problema. Mia madre ha sempre difeso le mie scelte. In famiglia la cosa era accettata. No, non credo di aver sofferto di fragilità. Anche se la società non ci ama».

 

Quando dice famiglia intende suo padre?

«I miei fratelli e mia sorella. Quest' ultima divenne assistente di Jean Piaget. Un fratello fu professore di parassitologia e l' altro finì in un ordine di monaci a predicare nel Chiapas. Non hanno mai alzato il ditino per farmi la morale. Quanto a mio padre è stato un uomo forte e giusto. Mi ha trasmesso l' amore per la letteratura e per la musica. La triade casalinga era Nietzsche, Wagner e D' Annunzio. Conobbi quest' ultimo».

 

In quali circostanze?

DANNUNZIODANNUNZIO

«Fu Ettore Cozzani, un letterato amico di mio padre, a presentarci il poeta, ormai vecchio. Avevo 11 anni e non sapevo che di lì a pochi mesi D' Annunzio sarebbe morto.

 

Mi regalò, dedicandomela, una copia del Cozzani mi disse: "Fanne buon uso". Lo sottolineò con enfasi. Non a caso, aveva fondato una rivista allora molto in voga: E anche una casa editrice. Dove forse mio padre sperava che in futuro avrei pubblicato le mie prime poesie.

 

Mi colpì la sua oratoria, tra il liberty e il futurismo. Ero affascinato dal cattivo gusto e dall' occhio di vetro che emanava bagliori luciferini. Cozzani disse che quello vero l' aveva perso in un duello».

Goffredo ParisiGoffredo Parisi

 

Le piace la difformità della vita?

«Mi piace l' ironia che la vita sa esprimere e i suoi aspetti più stravaganti. Ricordo che avevamo in casa un pappagallo argentino, dono del poeta Rodolfo Wilcock. Sergej gli aveva insegnato due frasi: una era "Heil Hitler" che doveva ripetere ogni volta che il capitano Richter cantava; l' altra era "Viva Maria" che Cocò pronunciava davanti al prete del paese».

 

Ma Wilcock perché vi regalò un pappagallo?

«Mio padre aveva, tra le varie attività, un opificio in Argentina. Conobbe Wilcock a Buenos Aires, e lo aiutò a pubblicare i suoi libri. Fu per gratitudine che ci spedì Cocò. Poi una notte sentimmo un colpo di pistola. Il nazista, che evidentemente non tollerava di essere preso in giro da un volatile, gli sparò a bruciapelo. Lo trovammo esanime a terra non lontano dal trespolo».

 

Ha conosciuto Wilcock?

Montale e Ottone Montale e Ottone

«Lo vidi un paio di volte a Roma dove si stabilì dopo la decisione di lasciare l' Argentina. Uno degli scrittori lessicalmente più suggestivi mi sembrò un uomo scontroso e triste. Quanto a mio padre, morì in Argentina. La mamma riportò il corpo in Italia. Era il 1972.

 

Cardinal MartiniCardinal Martini

Attesi al porto di Genova l' arrivo del piroscafo da Buenos Aires. Giunse durante una mattina calda e lattiginosa. Dalla passarella scesero quattro marinai con la bara sulle spalle. La mamma avvolta dai veli neri sembrava una diva del cinema muto».

 

Accennava ai suoi studi al conservatorio.

salvatore quasimodosalvatore quasimodo

«Il mio interesse per la musica, nato grazie a uno zio che componeva pezzi sinfonici, non mi impedì di constatare che ero totalmente privo di talento».

 

Fu un dramma?

MontaleMontale

«All' inizio lo fu. Scoprii che l' intelligenza non c' entra niente con il talento. Esso si va a posare dove vuole, facendosi beffe dei nostri sogni. I miei pensarono bene di farmi studiare dai gesuiti. Fu una scuola di realismo spirituale. Avevo come compagno di classe il futuro Cardinal Martini».

 

Che ricordo ne ha?

«Di un ragazzo freddo, riservato, poco incline a mescolarsi con i nostri turbamenti. Era il primo della classe e questo naturalmente non me lo faceva amare. I suoi compiti scritti erano sempre perfetti; le sue interrogazioni puntuali. Mai una sbavatura. Il pallore venato del suo volto mi faceva pensare a certi angeli di gesso indifferenti alla tempesta».

 

È stato un grande Arcivescovo.

«Allora non potei intuire le sue doti pastorali».

 

E le sue doti letterarie quando le ha scoperte?

«La poesia fin da piccolo. Il romanzo più tardi. Fu grazie a Giovanni Comisso che pubblicai il mio primo romanzo Il soldato nudo. Era il 1961. Parlare allora di omosessualità nelle caserme non era facile, anzi poteva apparire qualcosa di inaudito. Fui guardato con sospetto, messo al bando. In quel periodo ero a Roma. Avevo cominciato a lavorare per il cinema e la televisione. Ricordo che tra i più accaniti detrattori ci fu Goffredo Parise ».

salvatore quasimodo riceve il nobelsalvatore quasimodo riceve il nobel

 

Cosa le rimproverava?

«Non lo so. Non so se ai suoi occhi ero più modesto come letterato o come uomo».

 

Cos' è l' invidia letteraria?

«Non credo che Parise invidiasse i miei componimenti. Dopotutto provenivano da un mondo diverso dal suo.

 

Però l' invidia letteraria esiste. Mi fa venire in mente il commento ironico che Montale rilasciò dopo aver appreso del Nobel assegnato a Quasimodo: c' è modo e "quasimodo" di fare la poesia!».

 

Si preferisce come poeta o come traduttore di poesie?

«Sono due sensibilità prossime, ma non vanno confuse. La mia traduzione dell' opera completa di Rimbaud, che uscì nella Pléiade italiana, piacque molto a Giulio Einaudi e a Giulio Bollati».

 

Cosa le fece scoprire Rimbaud?

«Per me Rimbaud è stato un continuo viaggio nella vita simbolica degli oggetti. Era una visionario. Forse un veggente. Tutto il contrario dell' altro grande, intendo Mallarmé, per il quale la poesia è la purificazione del dialetto quotidiano».

RODOLFO WILCOCKRODOLFO WILCOCK

 

Per lei cos' è la poesia?

«È vivere verticalmente ciò che gli altri di solito subiscono orizzontalmente».

 

Ha nostalgia di qualcosa?

«Dei miei viaggi per il mondo. Ricordo che subito dopo la guerra mio padre voleva che mi occupassi della nostra azienda. Preferii la vita ai tessuti. Intrapresi un lungo giro che dal Cairo mi portò a Smirne e poi ad Aleppo e a Bagdad. Luoghi oggi infrequentabili, devastati dalla follia dell' uomo.

 

Qualche anno dopo in Libano, ai margini di una foresta di cedri, vidi un uomo che leggeva un libro. Scoprii che era Il Profeta di Gibran. Ne sfogliai le pagine. Era un' edizione inglese. C' era un mondo che valeva la pena conoscere. Tradussi quell' opera per Guanda nel 1968. Qualche anno dopo sarebbe diventato un libro culto, come Siddharta di Herman Hesse».

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Che ne è stato dell' amico ebreo?

«Di Sergej non seppi più nulla. Divenne architetto di qualche talento. Cinquant' anni dopo scoprii in una sua giacca, che non so come era stata conservata, un biglietto nascosto nella fodera. C' erano, con la sua scrittura, ricopiati alcuni versi di Pushkin. Iniziano così: "È tempo, amico mio, è tempo!".

 

Quei tre anni trascorsi insieme, come due esseri felici e complici di tutto, furono la nostra finestra sul tempo. Poi la finestra si chiuse. Non so a cosa Sergej volesse alludere. Mi resta di quella storia l' irripetibile giovinezza. Ciò che siamo stati e non saremo più. A volte penso che la vita sia tutto quello che non sappiano e non sapremo mai».