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Franco Giubilei per “Specchio – la Stampa” Estratti
Alfiere di una romanità comica che più romana non si potrebbe, Enrico Brignano si gode i sold out infilati a ripetizione al Teatro Sistina prima che I sette re di Roma, ancora un omaggio alla capitale ma stavolta in salsa classica, lasci le mura amiche dei sette colli per atterrare prima a Torino dall'11 dicembre e poi a Padova, Bologna, per poi virare di nuovo a Sud e planare a Milano per undici date.
«Ho ancora la gigantografia di un mio vecchio show all'arena di Verona piena, quando ancora la Lega ce l'aveva con noi e io portavo in scena Sono romano ma non è colpa mia. Eppure l'arena è stata costruita dai romani, anche se nell'ultimo spettacolo, scritto da Gigi Magni e musicato da Nicola Piovani, noi partiamo dall'inizio, da una Roma che era una città di pecorari», racconta l'attore rendendo doveroso omaggio anche a Garinei e Giovannini, oltre che a Proietti, il suo maestro. Una carriera quarantennale la sua, spesa fra cinema, tv, ma soprattutto teatro e poi ancora teatro, dove si crea quel contatto diretto col pubblico che Brignano ha cominciato a sperimentare da adolescente, quando capì che la sua vera vocazione era far ridere la gente.
Fatale fu quel treno locale che prendeva da ragazzino per andare a scuola, non è così che è cominciata?
«Per cinque anni ho frequentato un istituto tecnico industriale e tutti i giorni viaggiavo da Dragona (borgata romana più vicina a Fiumicino che al centro, dunque piuttosto remota, ndr) a Tor Marancia, dov'era la scuola. Ero sì portato per le materie tecniche ma avevo anche la capacità di ricordare un po' di storia e a forza di copiare imparavo qualcosa.
In treno, dopo il secondo o terzo anno, ho sentito una forte necessità di esibirmi e ho cominciato a raccontare barzellette agli altri passeggeri, che dopo un po', siccome erano sempre quelli, hanno preso a chiedermele. È stato un segno del destino».
La decisione di darsi al teatro com'è nata?
«Finita la scuola, ho visto un'ospitata di Gigi Proietti con i suoi allievi in tv e quel pomeriggio fu galeotto, perché da allora è partito tutto e ho deciso di fare l'attore. All'inizio ci furono parecchi no quando mi presentavo per i provini alle scuole di recitazione: quello dell'Accademia nazionale d'arte drammatica, il Centro sperimentale di cinematografia, il primo no dell'Accademia per giovani comici di Proietti e poi dell'Accademia Scharoff».
Ce n'era di che cambiare idea.
«In realtà quei no sono serviti a mettere alla prova la mia determinazione: ho continuato con insistenza e durante il militare ho frequentato una scuola di recitazione a Pescara, preparando un altro provino per la scuola di Proietti: recitazione, canto, danza, tip-tap, mi presentai in frac e cilindro. Devono aver pensato: questo dobbiamo prenderlo, se no si presenta pure il prossimo anno…».
E la sua famiglia cosa ne pensava?
«Mi sostenevano, ma ai miei non ho mai chiesto un soldo, mi mantenevo con lavoretti estivi, il motorino e la macchina li ho comprati lavorando in un cantiere. Mia madre era sola con tre maschi e mio padre aveva un negozio di frutta dove davo una mano. Tutti noi dovevamo rifare il letto, spazzare e pulire il negozio. Anche apparecchiare, per dire, da me lo pretendevano. Per noi era normale, oggi sembra quasi una cattiveria ma è il metodo giusto. È un'epoca lontana ormai».
Chi la ispirava o ammirava di più fra gli attori? C'era un modello in particolare?
«Proietti naturalmente, con cui ho lavorato una decina di anni, ma bisogna tener conto che in quel periodo (anni Ottanta-Novanta, ndr), era ancora in attività Nino Manfredi, che era un grande maestro, Sordi era ancora in salute dunque la memoria di quello che aveva fatto era molto viva, andai anche a vedere Aldo Fabrizi da piccolo in Rugantino.
C'era Montesano, c'erano Gaber e Dario Fo, e i nuovi comici come Troisi e Verdone. Mi sono innamorato un po' di tutti, più che essere ispirato da qualcuno. Ammiravo anche il garbo di Gino Bramieri. Da Vittorio Gassman a Lino Banfi, sono stati tutti quanti di insegnamento per me».
enrico brignano volevo un figlio maschio
Cosa c'è di vero, nella sua esperienza, nel fatto che in ogni attor comico alberghi una malinconia di fondo? È uno stereotipo?
«C'è un fondo di verità, d'altra parte è impossibile, a meno che uno non si faccia di sostanze, mantenere un ritmo di allegrezza costante. Ora, dato per scontato che far ridere fa bene, l'energia necessaria però va accumulata, e questo comporta momenti di grande silenzio e magari di malinconia. Senza arrivare a Totò, che raramente nelle interviste sembrava di buon umore, o a Gassman, che ha vissuto momenti di depressione, è comunque impossibile conservare sempre la gioia di vivere. Quando non mi va di vedere nessuno, mi chiudo in casa, mi godo la famiglia».
Vede possibile una sua svolta drammatica, magari in futuro?
«Nella parabola della vita tutti i personaggi svoltano e ironizzano su sé stessi, il Totò di Uccellacci e uccellini è del tutto diverso rispetto al Totò classico. Io spero di non diventare melò e di conservare sempre uno sguardo attento e burlone, poi nel futuro si vedrà. Anche ne I sette re di Roma si alterna un momento melodico e di tenerezza, con la morte di Numa Pompilio, a cui segue l'entrata a schiaffo con la marcetta del terzo re, Tullio Ostilio. La vita è questo, ci sono sempre alti e bassi».
Che rapporto ha con il politically correct? Un attore comico deve avere il senso del limite o far ridere è un obiettivo che si può raggiungere a qualsiasi costo?
«La censura è sempre un ostacolo di qualsiasi tipo sia, lo è stato nell'antica Roma, con i Principati, con la Chiesa, col fascismo, e anche il politicamente corretto a modo suo è una censura delle parole. Il comico dovrebbe godere di una sorta di licenza poetica, ma senza andare troppo oltre, vedi il comico che all'Oscar si è preso uno schiaffo da Will Smith per quella battuta sulla moglie. Credo che quando fai satira e fai ridere anche la vittima, allora hai fatto un buon lavoro, hai messo il dito nella piaga ma senza fare male a nessuno. Sta al comico trovare la strada per far ridere comunque. Oggi è più complicato, ci sono le associazioni: non puoi dire nano, dovresti dire Biancaneve e i diversamente alti...».
Come nascono le sue idee per far ridere?
«A volte basta prendere la metropolitana e osservare cosa avviene. La realtà nuda e cruda come quella dei pickpocket, oppure i drammi quotidiani degli anziani in fila all'anagrafe, nella loro guerra impari con la burocrazia, o le complicazioni nel fare lo spid: da una piccola grande drammaticità puoi tirare fuori un pezzo comico».
Cosa fa di un comico un vero comico?
«Abbiamo la fortuna di vedere la reazione del pubblico: la risata fa rumore, la lacrima no. La risata con l'applauso poi è un coito infinito, e non ne basta una, ne vuoi di più».
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