DAGOREPORT - L’ASSOLUZIONE NEL PROCESSO “OPEN ARMS” HA TOLTO A SALVINI LA POSSIBILITA’ DI FARE IL…
Estratto dell’articolo di Enrico Franceschini per “La Repubblica”
Per tutti i cronisti del mondo, e per milioni di lettori ovunque, il Washington Post è una leggenda del giornalismo: il quotidiano in cui due giovani reporter poi entrati nel mito, Bob Woodward e Carl Bernstein, fecero lo scoop passato alla storia come “il caso Watergate” (dal nome dell’edificio della capitale americana, sede del Partito democratico, a cui il presidente repubblicano Richard Nixon fece mettere illegalmente i microfoni), costringendo il capo della Casa Bianca a dimettersi e aprendo una delle più gravi crisi politiche degli Stati Uniti. […]
Ma adesso un’altra storia di intercettazioni illecite affiora dietro le sorprendenti dimissioni di Sally Buzbee, la direttrice del Post, una decisione altamente insolita nel pieno della campagna per le presidenziali; e mette sotto accusa Will Lewis, l’amministratore delegato del giornale, che ha nominato come nuovo direttore Robert Winnett. La direttrice dimissionaria è americana. Il Ceo Lewis e il nuovo direttore Winnett sono inglesi.
La loro nazionalità non farebbe notizia: è stato proprio un inglese, Mark Thompson, ex-direttore generale della Bbc, a trasformare il New York Times, come suo amministratore delegato, in un colosso del web con milioni di abbonamenti, e adesso sta cercando di fare altrettanto alla guida della Cnn, la rete televisiva americana di news.
Ma Lewis e Winnett vengono entrambi dal Daily Telegraph, un quotidiano londinese arciconservatore, di cui il primo è stato direttore e il secondo vicedirettore: scelta inconsueta per una testata liberal, filodemocratica e progressista come il Post, la cui redazione è in tumulto, bersagliata dalle continue rivelazioni sulla vicenda da parte del New York Times, suo tradizionale rivale.
In definitiva il “Postgate”, come lo si potrebbe chiamare parafrasando il vecchio scandalo alla Casa Bianca, chiama in causa Jeff Bezos, il fondatore ultramiliardario di Amazon che dieci anni or sono acquistò per 250 milioni di dollari il Washington Post dalla famiglia Graham, proprietaria del giornale fin dai tempi dello scoop sul Watergate, promettendo di rilanciarlo. Il quotidiano era in profonda crisi. Bezos lo ha traghettato apparentemente con successo nell’era digitale.
Ma negli ultimi anni, nonostante i numerosi premi Pulitzer vinti sotto la direzione di Sally Buzbee, sono tornati i problemi, con copie, abbonamenti e guadagni in calo. Nel 2023 Bezos ha assunto l’inglese Lewis come amministratore delegato, portandolo via al Wall Street Journal dove ricopriva lo stesso incarico, per dare nuova linfa a un giornale che continua a definire un brand di valore. Ora, tuttavia, molti si chiedono se non sia stato uno sbaglio. Un errore dalle conseguenze imbarazzanti, visto quello che sta venendo alla luce.
Ufficialmente, Sally Buzbee ha dato le dimissioni perché in disaccordo con una prevista ristrutturazione interna che avrebbe suddiviso il quotidiano in reparti separati (assegnandone a lei la responsabilità solo in parte) e abolito alcune sezioni. Ma il New York Times ha scoperto che c’è dell’altro.
Qualche mese fa, Lewis ha chiesto a Buzbee di non pubblicare un articolo sullo scandalo delle intercettazioni illecite del 2011 nei tabloid britannici di Rupert Murdoch: i microfoni messi a Vip, vittime di crimini efferati e membri della famiglia reale, in cerca di luridi scoop da sbattere in prima pagina. L’articolo nominava anche Lewis, perché all’epoca dei fatti Murdoch lo aveva messo alla testa di una squadra di manager con il compito di collaborare all’inchiesta sul Tabloidgate (altro nomignolo derivato dal Watergate), che minacciava di trascinare nel fango e fare perdere un sacco di soldi al suo impero mediatico.
Lewis riuscì nell’impresa, presentata come un’operazione di pulizia e di cooperazione con la magistratura. Ma recentemente un tribunale di Londra ha autorizzato i bersagli di quelle intercettazioni a fare causa a Murdoch in sede civile per risarcimento danni e le carte giudiziarie ipotizzano che Lewis si fosse impegnato in un cover-up più che a fare pulizia: operando, cioè, per nascondere e minimizzare lo scandalo.
Buzbee ha risposto che avrebbe pubblicato lo stesso l’articolo e lo ha fatto. In una tempestosa telefonata, Lewis ha sbattuto giù la cornetta dicendole: “Lei dimostra scarsa capacità di giudizio”. Guarda caso, qualche mese dopo Buzbee ha dato le dimissioni. E al suo posto l’amministratore delegato ha nominato il suo amico Winnett, un giornalista sconosciuto negli Usa e dal basso profilo anche in Inghilterra.
È vero che, come vicedirettore del Telegraph, Winnett rivelò lo scandalo dei rimborsi spese gonfiati dei deputati britannici, ma l’inchiesta era partita pagando 150 mila sterline (circa 180 mila euro) a una fonte: pratica considerata accettabile a Fleet Street, la “via dell’inchiostro” nel cuore di Londra in cui nacque il moderno giornalismo (la stampa inglese continua a essere chiamata così, sebbene oggi tutte le redazioni si siano trasferite altrove), ma inaccettabile per il buon giornalismo americano.
Come se non bastasse, è saltato fuori che Lewis ha offerto di farsi intervistare da Npr (National Public Radio), una stazione radio americana di grande prestigio, in cambio della rinuncia della medesima radio a diffondere la notizia del suo coinvolgimento nel resuscitato caso del Tabloidgate britannico. […]
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