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Michele Anselmi per "Ilvostro.it"
Se c'è un film intoccabile, nel senso che non si può criticarlo neanche un po', salvo passare per nemico tout court del cinema, quello è C'era una volta in America di Sergio Leone. Presentato in anteprima mondiale a Cannes 1984, il romantico gangster-movie con Robert De Niro e James Woods ascese subito al rango di capolavoro, passando - cito una tra le tante definizioni entusiastiche - per «una delle più strazianti epopee della storia del cinema». Bah!
Il sottoscritto, nel suo piccolo, non la pensa così. Rivisto più volte negli anni, il kolossal leoniano, 3 ore e 49 minuti nel suo primo montaggio, poi ridotte a 2 ore 19 dal produttore americano con comprensibile dolore dell'autore, mostra l'usura del tempo, nonostante l'enorme ambizione che lo anima. Forse ricorderete.
Nel 1978, stanco di girare western e produrre film di colleghi, Leone appese il cinturone al muro e riprese in mano il progetto di C'era una volta in America, e ne fece, tra mille traversie finanziarie, girando qualcosa come 350 mila metri di pellicola in 30 settimane di riprese, la summa estetico-filosofica del proprio cinema. Gonfio, sentimentale, dalla struttura ellittica, nostalgico, barocco, il filmone fu accolto, appunto, come il capolavoro indiscutibile del venerato maestro dell'Eur.
Con rarissime eccezioni, tutti a magnificarne l'impianto drammaturgico, le soluzioni di montaggio, la prova degli attori americani, la ricostruzione d'ambiente, la dimensione allucinata indotta dall'oppio, le battute entrate nell'uso comune («Cos'hai fatto in tutti questi anni?». «Sono andato a letto presto»), gli infiniti squilli del telefono, il rumore del cucchiaino nella tazzina di caffè, l'uso di Yesterday dei Beatles o del classico Amapola, eccetera.
Non sorprende, quindi, che venerdì approdi al Festival di Cannes la cosiddetta extended version, con sei blocchi di scene ritrovate e reinserite esattamente dove furono tagliate da Leone, per complessivi 26 minuti in più, il che significa un totale di 4 ore e 19 minuti. Si vedrà , per dire, il dialogo tra De Niro e Louise Fletcher, la direttrice del cimitero che scomparve dal film pur comparendo nei titoli di coda; oppure la scena in cui Deborah, cioè Elizabeth McGovern, interpreta Cleopatra a teatro; o anche l'amplesso a pagamento tra Noodles e Eve, interpretata da Darlenne Fluegel.
A esser sinceri, non sempre queste operazioni filologico-commerciale funzionano, basti pensare alla versione restaurata e ipertrofica di Apocalypse Now, e tuttavia spira un'aria di notevole eccitazione mediatica attorno al recupero, che porta la firma di Gucci, The Film Foundation di Martin Scorsese, Cineteca di Bologna, L'Immagine Ritrovata, Andrea Leone Film, The Film Foundation e Regency Enterprises. Prima italiana il 22 giugno in Piazza Maggiore, a Bologna, come anteprima della rassegna "Il cinema ritrovato", poi uscirà in dvd.
Di sicuro la vedova del regista scomparso nel 1989, la signora Carla Ranalli, non potrà più dire, come pure disse qualche anno fa sul Corriere della Sera: «Nessuno fa niente per ricordare Sergio, secondo me dipende dal fatto che non era un uomo di sinistra e la sinistra non lo mai perdonato per questo, gli davano dell'uomo di destra, quasi del fascista».
Con tutto il rispetto, se c'è un regista che da quasi subito, cioè già con Per un pugno di dollari del 1964, ha goduto di un plauso generale, oggi si direbbe bipartisan, questo è proprio Leone. Non ci fu neanche bisogno di sapere che dietro lo pseudonimo di Bob Robertson si celasse il regista del Colosso di Rodi, lesto a passare dai declinanti "sandaloni" ai più accattivanti "cappelloni", perché i critici di ogni orientamento riconoscessero le qualità di quello strano Ufo, che poi si scoprì copiato pari pari da Yojimbo. La sfida del samurai di Kurosawa ma non per questo meno originale nella fattura, uscito d'agosto nella più completa sfiducia del produttore e degli esercenti.
L'ho già raccontato. Nel recensirlo su l'Unità , l'esigente Aggeo Savioli ne disse a sorpresa bene, apprezzando il respiro innovativo che si traduceva in rilettura dei canoni western con una robusta iniezione di violenza grafica, e così fecero altri critici, con le eccezioni di Tullio Kezich e Guido Aristarco.
Poi è vero: Savioli ignorava che Robertson fosse il Leone col quale aveva litigato lavorando al copione del Colosso di Rodi, quattro anni prima, tanto da rompere il sodalizio. Leggenda vuole che Leone, stupito dal tenore della recensione dopo quei trascorsi burrascosi, abbia telefonato a Savioli dicendosi "touché", e che l'altro, sorpreso pure lui non avendo ben capito, se la sia legata al dito per tutti gli anni a venire.
In effetti, da allora in poi l'Unità prese a stroncare o maltrattare i film di Leone, e la cosa andò avanti per quattro lustri, un po' per inerzia, fino al fatidico 1984 di C'era una volta in America. Nel frattempo Leone aveva girato Per qualche dollaro in più, Il buono, il brutto, il cattivo, C'era una volta il West, Giù la testa, lanciato Carlo Verdone, prodotto i film di Tonino Valerii e Giuliano Montaldo.
Figurarsi che in Giù la testa, ripreso in mano dopo aver licenziato Peter Bogdanovich, citava addirittura Mao, Borges, Goya, omaggiava i fratelli Cervi, guardando con una punta di simpatia alla bombarola Ira irlandese, ma senza prendersi troppo sul serio, alla sua maniera, rifacendosi al teatro dei Pupi siciliani più che al western para-sessantottino.
Ricordo ancora come fosse oggi, lo sguardo di Leone, quel mix di sospetto e indifferenza, quando gli sottoposi, da giovane ed entusiasta cronista dell'Unità , una decina di domande messe per iscritto. L'accordo era che si sarebbe preso una settimana di tempo per rispondere, sempre per iscritto. Così fu.
L'intervista, dove rispondeva per battute taglienti, alla maniera dei suoi pistoleri, ironizzando anche su Bertolucci, contribuì a riaprire un canale, a scongelare la storica, ventennale, diffidenza. Anzi, mosso da simpatia verso noi giovani critici, cominciò addirittura a inviare gratis a l'Unità articolesse sul cinema, dense e ispirate, a tratti retoriche, ma ben scritte.
Lui che non era mai stato comunista si divertiva a pubblicare sul giornale del Pci. Restando, nel fondo, un democristiano col culto di Griffith e Chaplin. John Ford no, si sentiva distante dal regista di Ombre rosse, Sentieri selvaggi, Soldati a cavallo. «Era un'ottimista, io sono un pessimista. I personaggi di Ford quando aprono una finestra scrutano un orizzonte pieno di speranze; i miei hanno sempre paura di beccarsi una palla in mezzo agli occhi» sentenziava Leone nelle interviste. E mi auguro che fosse per aderire al personaggio. Ma temo di no.
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