DAGOREPORT - BLACKSTONE, KKR, BLACKROCK E ALTRI FONDI D’INVESTIMENTO TEMONO CHE IL SECONDO MANDATO…
Marco Giusti per Dagospia
Ci siamo. Poteva andare peggio. Infatti piove. Per il giorno di apertura Thierry Fremaux ha scelto la solita doppia strada. Così non sbaglia. Da una parte, come inizio di Cannes Classic, un restauro prestigioso. Addirittura il “Napolén” girato da Abel Gance nel 1926, un film che i vecchi cinefili romani conoscono bene perché segnò una delle prime e più alte punte dell’Estata Romana di Renato Nicolini (avercene un altro!) con tanto di accompagnamento musicale di Carmine Coppola, il padre di Francis, qui dopo un restauro durato 16 anni della Cinémathèque Française seguto da Costa Gavras e da Georges Mourtier, in “Gran Version” da 7 ore di durata (minchia!) diviso in due parti.
La prima, di tre ore e passa, è quella che abbiamo visto ieri in Sala Debussy, che inizia con Napoléon, interpretato da Albert Dieudonne con cappello e vestito che non si toglie mai, anche quando finisce in una tempesta su una barchetta fuggendo dalla Corsica, a Parigi ai tempi di Robespierre, Danton e del Marat di Antonin Artaud (me ne ero scordato che c’era), passa per un’avventura in Corsica con la mamma, i fratelli e le sorelle e il perfido Pozzo che trama con il De Luca della situazione, Paoli, per vendere l’isola agli inglesi (ma c’è anche un certo Buttafuoco che la vuole vendere agli spagnoli e un altro che la vuole vendere ai Savoia) e termina con il gigantesco assedio di Toulon, che da solo dura un’ora di film con una battaglia che si svolge tutta sotto la pioggia e Napoléon che passa da capitano a generale di colpo perché è un genio militare.
Da una parte quindi, ieri, c’era questo polpettone del 1926 musicato fin troppo enfaticamente (rivoglio Carmine Coppola) ottimo anche come scelta di apertura macroniana, ma che, malgrado la presenza della figlia di Abel Gance in sala e la ben edizione di “più grande film di ogni tempo” di Costa Gravas, ha fatto scappare un bel po’ di cinefili che non hanno retto la durata, da un’altra c’era il più divertente, ma leggerino, solo 80 minuti, “Le Deuxieme acte” di Quentin Dupeix, il regista del divertente “Mandibles” ma anche del terrificante “Daaaalì”, visti entrambi a Venezia, con un gran cast di star francesi, Léa Seydoux, Vincent Lindon, Louis Garrel, uniti a raccontare i rapporti che possono esserci tra il cinema e l’intelligenza artificiale.
L’aspetto più interessante è che l’hanno fatto uscire subito in sala. Poi ci lamentiamo dello stato del cinema italiano. Metacinema. Un po’ noioso. Alla prima di ieri, apertura di Cannes 77, Greta Gerwig, presidente di giuria, è stata omaggiata da una versione live di “Modern Love” di David Bowie, la canzone simbolo del suo “Frances Ha” e vedo che era presente oltre a Meryl Streep, Palma d’Oro onoraria del Festival, a Juliette Bincohe, che l’ha premiata, a Omar Sy, Mbappé, anche Messi, il cane di “Anatomia di una caduta”. Meryl Streep ha simpaticamente ringraziato i cinephiles (“Non mi avete ancora lasciato. Non siete ancora scesi dal treno”).
Ovviamente con una giuria composta da molte donne forti, dalla Gerwig a Nadine Labaki a Lily Gladstone a Eva Green, e con le ragazze del movimento francese legato al #metoo che promette di fare rivelazioni scottanti proprio sui protagonisti del festival, scordiamoci che sarà una Cannes per maschi. I bei tempi di Harvey Weinstein sono finiti. Anche se non sono certo così lontani. “Le monde” ha già dedicato la copertina di ieri a 100 personalità pubbliche legate al #metoo che si sono espresse su violenze e abusi di genere, e chiedono una legge al motto di “On persiste et on signe” (“persistiamo e firmiamo”).
La notizia che ha davvero fatto colpo, in un mondo e in un festival sempre più controllato è la fuga a piedi, tra i boschi, dall’Iran del regista Mohammad Rasoulof prima che gli cadesse addosso una pena di otto anni di galera. Ancora non è sicuro però se riuscirà a presentare a Cannes il suo ultimo film, “The Seed of the Sacred Fig”.
Vi segnalo anche, dopo la morte di un grande produttore che era di casa a Cannes, Roger Corman, e tanti film ha comprato e venduto, anche del suo pupillo, Mark Damon, 91 anni, attore cormaniano dai tempi di “La caduta della casa degli Usher” con Vincent Price, poi attori di spaghetti western e avventurosi i horror in Italia, da “Johnny Oro” di Sergio Corbucci, “Requiescant” di Carlo Lizzani a “I cento cavalieri” di Vittorio Cottafavi a “Black Sabbah” di Mario Bava, e infine produttore e distributore di film di grande successo. Come “La storia infinita”, “Das Boot”, “9 settimane e mezzo”, “Monster2 di Patty Jenkins.
Era stato anni in Italia, ma a metà degli anni ’70 tornò in America, dove iniziò a occuparsi di produzione. Del resto ha ragione David Cronenberg, tra qualche giorno qui si vedrà il suo ultimo film, “The Shrouds”, che ormai gli attori che amiamo di più se ne sono andati e l’unico modo per rivederli è coi vecchi film. "Spesso guardo film per vedere le persone morte. Voglio rivederle, voglio ascoltarle. E quindi il cinema è in un certo senso una sorta di macchina post-morte nascosta, sai. In un certo senso il cinema è un cimitero."
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