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Alberto Mattioli per “la Stampa”
E il sesto giorno la politica arrivò a Cannes. Così finalmente abbiamo avuto la nostra dose di società malata, capitalismo cattivo e di «resistenza della cinematografia», addirittura. Il film s’intitola La loi du marché, «La legge del mercato», regista Stéphane Brizé. Vincent Lindon è un cinquantenne con un passato sindacale e un presente da disoccupato che subisce tutte le umiliazioni del caso, dai «colloqui» di lavoro via Skype alla necessità di vendere la casetta prefabbricata al mare, anche perché non è solo ma ha moglie e figlio Down. Finché trova un posto come vigilante in un supermercato, dove però dare la caccia al pensionato costretto a rubare la bistecca o alle cassiere che s’imboscano i buoni sconto dei clienti - insomma, la guerra fra poveri - non gli piace affatto.
BUDGET LIMITATO
Lui è bravissimo e, a detta di tutti, palmabilissimo. Attorno, attori non professionisti, un budget limitato (meno di due milioni di euro, con lo stesso Lindon come coproduttore) e uno stile da documentario. «Mettiamo lo spettatore nella posizione del giudice», dice Lindon, ma non è del tutto vero perché l’oggettività è solo di facciata e la tesi c’è, eccome. «Lo obblighiamo a prendere posizione, a politicizzarsi», aggiunge, e infatti: «Il regista non vuole convincere nessuno, ma chi ha visto il film si è ricordato di essere “di gauche”». Libération ovviamente approva: ecco «l’alienazione volontaria fabbricata dal liberalismo senza regole», amen.
SCENA DEL FILM LA LOI DU MARCHE?
Però in questo festival il film politico sembra più l’eccezione che la regola, anche perché la critica sociale sarà bella e magari pure giusta, ma poi sulla Croisette la concentrazione di yacht per metro quadrato è così alta che si fa fatica a trovare uno spicchio di Mediterraneo per fare il bagno, e insomma ormai dovrebbe essere chiaro che non sarà un film a cambiare il mondo. Forse per questo pochissimi se lo propongono e tutti parlano soprattutto di affari personali, privati, familiari.
I temi politici o sono scomparsi, oppure restano sullo sfondo. Per Moretti, Margherita Buy è una regista che gira un film su una vertenza sindacale, ma la cosa finisce lì. E Carol racconta sì un amore lesbico nell’America di Eisenhower fra la signora bene Cate Blanchett e la commessa Rooney Mara (smodatamente brave entrambe), ma è una storia d’amore.
Infatti il regista Todd Haynes spiega di non aver voluto fare né uno spot per i gay né uno per il matrimonio fra persone dello stesso sesso (forse anche perché è argomento che nel mondo, Italia a parte, non suscita più alcuna discussione). Quanto al thailandese Apichatpong Weerasethakul, in conferenza stampa ha attaccato i militari al potere nel suo Paese e suscitato una polemichetta perché pare che la frase non sia stata tradotta bene o non tradotta del tutto.
Non si vede la politica e non si vedono i politici. Certo, è presente la ministra della Cultura, Fleur Pellerin, quella che debuttò dicendo di essere troppo occupata per leggere libri, scatenando sberleffi e pernacchie perché qui, a differenza che in Italia, i politici sono tenuti a nascondere l’ignoranza invece di esibirla. Pellerin si aggira per Cannes distribuendo croci di «Chevalier des Arts et Lettres» e tuonando contro il progetto di riforma del diritto d’autore allo studio a Bruxelles.
Domenica ha ricevuto in rinforzo il primo ministro Manuel Valls, che rientrava da un’ispezione a Mentone per la questione immigrati, che questi italiani non solo salvano ma non vogliono nemmeno tenersi tutti, pensa un po’. Poi è segnalata Nathalie Kosciusko-Morizet, la Cate Blanchett sarkozysta e, con gli italiani in odor di premi, è minacciata una visita di Dario Franceschini. Però l’impressione è che le buone cause, ovviamente progressiste e «gauchiste», quest’anno siano date per scontate: inutile occuparsene.
PS: a conferma del tutto, la conferenza stampa della «Loi du marché» è stata la meno affollata fra quelle viste finora. I colleghi erano tutti a vedere il nuovo cartone animato della Pixar. La legge del mercato, appunto.
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