DAGOREPORT – TOH! S’È APPANNATA L’EMINENZA AZZURRINA - IL VENTO DEL POTERE E' CAMBIATO PER GIANNI…
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È un atto di autentica onestà intellettuale il nuovo metodo adottato dal critico cinematografico del “Corriere della Sera”, Paolo Mereghetti, per valutare i premi: se c’è lui in giuria i premi sono giusti; se lui è assente i premi sono sbagliati. Finalmente uno che fa chiarezza, senza amichettismo di maniera, pane al pane e vino al vino sin dal titolo: “Un verdetto giusto, anch’io tra i giurati”. Se lui non ci fosse stato il verdetto sarebbe stato ingiusto.
Se il generale Vannacci si occupasse di Cultura, Mereghetti meriterebbe un capitolo di un nuovo libro: Mereghetti è il mondo al contrario della critica, una eterogenesi dei fini al 100%. La critica, infatti, è quella attività indipendente che dovrebbe giudicare l’opera artistica altrui in piena autonomia, distanza e sulla base di certificate conoscenze e metodi.
Ecco, Mereghetti è il contrario: lui scrive per il “Corriere” di un premio in cui è giurato, affermando che i premi assegnati sono corretti perché c’è lui in giuria. Leggiamo il suo “commento” sui Golden Globes di Hollywood.
L ARTICOLO DI PAOLO MEREGHETTI SUI GOLDEN GLOBE (DOVE ERA GIURATO)
L’inizio è degno di tutti i votanti del giorno dopo: “Oppenheimer e Poor Things li ho votati anch’io, così come Christopher Nolan, Emma Stone, Paul Giamatti e Miyazaki”; cioè, dopo che si conoscono i vincitori si sale sul carro. Vabbè, questo è un metodo molto italiano.
Andiamo avanti. “Quest’anno – ci informa Mereghetti nell’onanistico articolo come se un lettore fosse interessato a lui e non ai film – ero stato invitato a partecipare alla votazione dei Golden Globes, che dopo le polemiche degli anni scorsi avevano allargato la loro platea di votanti anche a chi non è un corrispondente della stampa estera accreditato a Hollywood”: qui il nostro ci spiega – e chissenestrafrega – che lui quest’anno è stato tra i votanti.
bandiera americana con 50 stelle in oppenheimer
Ed è proprio questo suo ingresso che ha migliorato il premio! Gli anni scorsi, infatti, c’erano state polemiche ed è per questo che gli americani hanno chiamato lui, il Mereghetti capite? Il Mereghetti, quello che ha passato la vita a scrivere i riassuntini delle trame con le stellette (tipo come è stato il servizio dei bagni dell’autogrill da una a cinque stellette), le stesse trame che trovate su internet con più dati, le stesse che fanno “il Pino Farinotti”, “il Morandini” tirandosela un po’ meno (cavolo, che presunzione questi riassuntisti del cinema: nell’arte non esiste “il Longhi”, “l’Arcangeli” e via dicendo…).
Non sono nostre considerazioni, è proprio il Mereghetti che nell’articolo su Mereghetti ce lo conferma: “Devo dire che c’è una certa sintonia tra i miei voti e i premiati”. Ecco, siamo tranquilli, sebbene trattasi di una sintonia del giorno dopo, Mereghetti ci informa che lui, il chiamato, è stato determinante. Solo che, se avesse vinto Matteo Garrone ci viene l’impalpabile sospetto che il Mereghetti, nell’articolo su Mereghetti avrebbe scritto che aveva votato Garrone in “sintonia” con il premio.
Comunque sia, è davvero condivisibile anche la considerazione finale del suo articolo: “Non che la cosa interessi molto (il mio coinvolgimento come votante)”: ecco, bravo Mereghetti! Il tuo coinvolgimento come votante non è che non interessi molto, anzi, non interessa per niente, come il tuo articolo.
UN VERDETTO GIUSTO (ANCH’IO TRA I GIURATI)
Estratto dell’articolo di Paolo Mereghetti per il “Corriere della Sera”
Oppenheimer e Poor Things […] li ho votati anch’io, così come Christopher Nolan, Emma Stone, Paul Giamatti e Miyazaki.
Quest’anno ero stato invitato a partecipare alla votazione dei Golden Globes, che dopo le polemiche degli anni scorsi avevano allargato la loro platea di votanti anche a chi non è un corrispondente della stampa estera accreditato a Hollywood (all’origine del premio, 81 anni fa) e devo dire che c’è una certa sintonia tra i miei voti e i premiati: non che la cosa interessi molto (il mio coinvolgimento come votante) o sia un metro di giudizio, ma mi sembra che in generale le votazioni di quest’anno siano abbastanza condivisibili e quindi riconfermino l’idea che domenica notte a Los Angeles si sia svolta la «prova generale» degli Oscar.
Con una sola eccezione, il premio per il miglior film non in lingua inglese dove ha trionfato Anatomia di una caduta che la Francia non ha voluto presentare come proprio rappresentante, scegliendo l’insipido La passione […].
Per il resto, il trionfo di Oppenheimer (cinque premi) e Poor Things (due premi) hanno consacrato le due opere più interessanti e innovative che Hollywood aveva saputo produrre nell’anno, lasciandosi alle spalle Barbie, a cui è andato l’incontestabile riconoscimento per il miglior risultato al botteghino (oltre a quello per la canzone), anche se mi è dispiaciuto per il mio candidato, Mission: Impossibile […].
Non mi sembra abbia avuto molto peso neanche quella ricaduta moralistica che altrove (penso alle ultime edizioni degli Oscar) aveva finito per attribuire premi per ragioni extra-cinematografiche: l’affermazione di Lily Gladstone, cioè della prima nativa americana a vincere un Golden Globe come miglior attrice drammatica è giustificata (io avevo votato Carey Mulligan per Maestro) e quello di Da’Vine Joy Randolph per The Holdovers come attrice non protagonista ha impedito che Emily Blunt (la mia scelta) bissasse quello già vinto nel 2006 per Gideon’s Daughter, ma il premio dell’attrice di colore non è certo uno scandalo.
emily blunt in alexander mcqueen
[…] ancora una volta hanno trionfato film «usciti solo in sala» e non quelle opere, come Maestro (quattro nomination ma uscito a mani vuote) o Killers of the Flower Moon (un solo premio, quello per la Gladstone su sette nomination), che hanno scelto soprattutto lo streaming. Ma non penso si sia trattato di una scelta di tipo «ideologico», piuttosto (e l’ho verificato su me stesso) al momento del voto la memoria ha finito per mettere davanti quei film che avevano usufruito di una maggior eco proprio grazie alla loro vita nelle sale […]. E mi sembra un «messaggio» su cui l’industria del cinema dovrebbe riflettere.
florence pugh cillian murphy oppenheimer
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