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Di Fulvio Abbate
ROMA DOPO LA NEVE
Fino a qualche anno fa, Roma consegnava una certezza – diciamo pure turistica – assoluta a tutti coloro che avessero voluto cercarla per subito trovarla sulle carte topografiche, sui mappamondi, sulle cartoline, perfino quelle “a fisarmonica” che i cosiddetti urtisti mostrano e offrono accanto ai rosari benedetti davanti al Vittoriano, quasi come un ideale biglietto per l’ascesa verso il loggiato più elevato come belvedere di quel monumento dedicato al sommo orgoglio patrio in forma, appunto, di Altare.
FULVIO ABBATE - ROMA VISTA CONTROVENTO
Dimenticavo: lo stesso accadeva anche dentro la “boule”, non meno souvenir, che ne mostri la neve che lieve scende come prodigio decennale sul sanpietrino, sul Pincio, sul Gianicolo, su San Pietro e, va da sé, sul Colosseo, la neve che Roma non può consentirsi per ragioni che presto confesseremo. E perfino sul povero residente costretto ad affrontare ogni genere di attesa alle fermate dei suoi mezzi pubblici, ATAC come INRI.
La neve, già, la neve a Roma, la neve che proprio l’Urbe non può permettersi, concedersi, l’ho detto, per ragioni di pura sopravvivenza, per ragioni di mancato minuto mantenimento stradale. Ultimamente, in verità, Roma consegna un’unica certezza ai suoi spettatori, ai suoi visitatori, ai suoi attori residenti, la percezione esatta di avere smesso del tutto d’esistere, punto.
Avendo ormai Roma quasi esaurito ogni sua funzione perfino mitopoietica, turistica, astrale, ministeriale. Sembra, anzi, che un grande lucchetto o catenaccio (o, perché no, spranga) sia stato virtualmente apposto in corrispondenza d’ogni suo ingresso e gli abitanti invitati, ordinatamente, pazientemente a uscire da ogni quartiere abitato, con la città affidata così al ricordo, a ciò che è stato, a ciò che fu, associata con nostalgia alle canzoni che ne innalzavano il genius loci con perizia melodica davvero un po’ reazionaria, “Vecchia Roma” su tutte, “... er progresso t’ha fatta grande, ma ‘sta città nun è quella ‘ndo se viveva tant’anni fa, più non vanno l’innammorati pe’ lungotevere a rubbasse li baci a mille là sotto l’arberi, e li sogni sfojati all’ombra de un cielo blu so’ ricordi de un tempo bello che nun c’è più”.
Se, a distanza di pochi anni dalla sua prima edizione – 2015 – dovessimo infatti immaginare per questa benemerita e implacabile guida una nuova e ulteriore voce che descriva le novità cittadine non resterebbe che fare unicamente riferimento al tragico stato del suo manto stradale, punto, nuovamente punto.
Mi direte: a cosa serve tenere in ordine un manto stradale in una città che ha smesso, appunto, come si è appena accennato, di esistere, meglio, i cui abitanti sono stati, d’ufficio, invitati ad uscire possibilmente dopo aver chiuso il gas delle proprie case, non avete udito il suono delle sirene dei pompieri di Testaccio e di Prati? Avete perfettamente ragione. Non resta quindi che descrivere lo stato attuale delle strade dell’Urbe. Non le buche, sulle quali in questo libro abbiamo abbondantemente dissertato quasi introiettando lo spirito profondo di un cantoniere dell’ANAS, intendiamoci, piuttosto le crepe e le lesioni che si mostrano a vista d’occhio, d’ammortizzatore, di battistrada, di vertebre, di referto clinico definitivo da ottenere nei suoi risaputi nosocomi.
Ma forse è il caso di lavorare di immaginazione, proviamo allora a intravedere l’intero manto stradale di Roma come se lo scrutassimo dal cielo, a volo d’uccello, a volo in picchiata di rondini avvistate da Romolo e Remo, quasi che le strade della città possano corrispondere alla testa pelata di un ideale imperatore romano, non Augusto, non Cesare, non Nerva, non Galba, non Caligola, non Massimino il Trace, non Tiberio, non Nerone, non Commodo, non Pupieno, non Filippo l’arabo, non Anicio Olibrio, semmai la loro summa, un unico gigantesco testone che riassuma perfino Traiano, Vespasiano e Antemio (ho detto Antemio, non Artemio, da non confondere con il personaggio di Gassman ne “I mostri”, ossia quell’Altidori Artemio che, povero pugile, rivolto all’amico Tognazzi nei panni del non meno derelitto manager Enea Guarnacci, ricorderemo per il suo “So’ contento...”),
un ipotetico imperatore calvo e dal cuoio capelluto devastato dal tempo e dalla sorte, quasi che tutte le nevicate e perfino le piogge acide del mondo si siano accanite sulla sua cute; e qui torna alla memoria ciò che annotava il grande semiologo francese Roland Barthes nel saggio dedicato ai miti, dove lo studioso non poteva fare a meno di rilevare che da sempre nei film, cioè al cinema, gli antichi romani non sono mai calvi, mostrano anzi una ricchezza di capelli che ha la sua acme formale nelle fronti adornate da riccioli su riccioli modellati come un meandro e opportunamente fissati dai truccatori con lacca più forte di una colla. Nel nostro caso, sia ben chiaro, occorre invece immaginare un imperatore la cui calotta cranica sia un reticolo di crepe, di fratture, proprio devastata.
Ecco, Roma dopo l’ultima nevicata patita, e alla quale non è stata dedicata neppure una canzone, mostra proprio questo aspetto. Dunque l’unico dibattito turistico e insieme filosofico che possa investirla non può che riguardare questa non esaltante metafora del cuoio capelluto desertificato del suo imperatore ideale, lì interamente crepato dal gelo.
Per fare questo ficcheremo una metafora dentro una già abbondante precedentemente coltivata metafora, proveremo a immaginare la testa ciclopica del nostro Ur-Imperatore romano realizzata con il proverbiale Das, un materiale che custodisce inevitabilmente una sua propria prosaicità.
L’imperatore romano che qui, per simpatia, chiameremo proprio Das mostra al centro della sua testa una profonda ferita immedicabile, e ancora, se visto dal cielo, l’imperatore Das mostra anche un’aria afflitta in grado di suggerire la sensazione che nulla e nessuno potrà mai trascinarlo fuori da una tale ciclopica afflizione, dalle sue ferite coltivate nei decenni, ferite che raccontano la assenza totale di progettualità rispetto a Roma, una capitale che non è mai stata tale e forse mai lo sarà, una città che negli ultimi lustri è riuscita unicamente a dotarsi di un nuovo soprammobile-suppellettile, ossia la cosiddetta “Nuvola” progettata dall’archistar Massimiliano Fuksas per il quartiere degli spettri chiamato EUR...
fulvio abbate roberto cotroneo
Ecco, lasciamoci con quest’ultima immagine, con la Nuvola. Domanda: a cosa assomiglia la Nuvola di Fuksas? Personalmente, una risposta ritengo di averla trovata, la Nuvola assomiglia a una grande lampada da comodino, assai simile a quelle di foggia “orientale”, le stesse che le belle ragazze di Roma, le ragazze che finalmente “la danno” (smentendo così la dura sentenza pronunciata da Giacomo Leopardi in una lettera al fratello, e qui, in un capitolo, riportata) ospitavano sui loro magici comodini negli anni Settanta. Ed è forse questa l’unica nuova suggestione rassicurante nel buio pesto di una città senza più apparente futuro, salvo avere conquistato un nuovo, ennesimo, imperatore dalla testa, anzi, dalla capoccetta sfigurata, mutilata e obliterata dalle offese delle intemperie, del destino, della sorte, della neve.
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