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ELOGIO DI CARMELO BENE - PUBBLICHIAMO A PUNTATE IL FANTASTICO PAMPHLET CHE GIANCARLO DOTTO DEDICO' AL PIU' GRANDE ARTISTA ITALIANO - ''SPESSO MISCONOSCIUTO COME ARTISTA, QUASI SEMPRE RIMOSSO O “AGGIUSTATO” COME INTELLETTUALE. ERA DIVENTATO, GIÀ DALLA TRASUDATA MISERIA DELLE CANTINE NEGLI ANNI ’60 FINO ALL’APICE DEI TEATRI LIRICI NEGLI ANNI ’80, L’ICONA DEI SALOTTI SNOB..." - VIDEO
DISTICO
6 Novembre 1966, esattamente 53 anni fa Teatro delle Muse a Roma, replica de “Il Rosa e Nero”. C'è un solo spettatore in sala: Theodor Adorno. Carmelo Bene recita solo per lui: “Il diavolo del teatro italiano e il filosofo della musica contemporanea”, così li presenta l’uno all'altro nell'intervallo dello spettacolo Silvano Bussotti.
Carmelo Bene oggi avrebbe da poco compiuti 82 anni.
Elogio di Carmelo Bene (a dieci anni dalla sua morte) di Giancarlo Dotto – Tullio Pieronti Editore
Non l’hai mai saputo e ora voglio dirtelo. Quella notte sono stato sul punto di ucciderti. Era il 20 marzo del 1982. Tappa della tournée teatralmente più eccentrica e grandiosa del dopoguerra, Carmelo Bene e Eduardo De Filippo insieme, negli stessi teatri e negli stessi stadi, al cospetto di folle adoranti. Tu con il tuo Dante, lui con la sua poesia napoletana. Da Pisa dovevamo arrivare ad Ancona. Quattrocento chilometri nella notte, io e te soli, sfiniti, tu più sfinito di me. Io al volante dell’enorme Citroen Pallas beige, la più bella macchina mai concepita da mente umana.
giancarlo dotto e carmelo bene
Ti eri da poco addormentato al mio fianco, la testa reclinata verso il finestrino. Anch’io vacillavo ma tenevo duro, stropicciandomi gli occhi con la saliva. Saranno state le tre di notte. Uscito dall’autostrada, avevo appena preso la provinciale, stretta, piena di curve e male illuminata. Vado veloce, smanioso di arrivare. Il colpo di sonno arriva secco, improvviso. Il buio totale. Due, tre secondi, alla guida non c’è più nessuno. Mi riprendo appena in tempo, a un millimetro dal baratro sotto di noi. Ho corretto lo sterzo in tempo, un secondo prima dell’irreparabile. L’auto ha sbandato, ma tiene. Tu non ti sei accorto di nulla, io terrorizzato e il cuore in gola. Ma salvi. Siamo stati intimi anche così. E ora voglio dirtelo.
Dieci anni dopo
Dieci anni dopo è lo stesso, smisurato capolavoro che insiste a passo di carica. Dimenticato e indimenticabile. Riproducibile ma non replicabile. Sfuggente alla presa. E ognuno di noi, carmelitani più che mai scalzi, si prende il suo. L’attore sublime, l’intellettuale aforistico, il cineasta che brucia la pellicola, lo scrittore, il poeta, il performer televisivo. Lo scandaloso e il solitario, l’incantatore e il serpente, il vampiro e la ferita che butta sangue. L’orco impastato di tenerezza. Con lui era tutto e il contrario di tutto, era il lager ed erano le rose.
La voce. Era, soprattutto, la voce. Dentro una storia che più vietata ai minori non si può, ma vietata soprattutto ai maggiori. Una vera e propria impresa di demolizione, questo era Carmelo Bene. Che non ha risparmiato niente e nessuno, a partire dalla propria caricatura allo specchio. Storia di un barbaro e di un poeta. Storia di ebbrezze. La finissima trama di un ingegno che mette d’accordo la Beata Ludovica del Bernini e le arie di Rossini, l’abbandono dei mistici e il XX seminario di Jacques Lacan, le guitterie sublimi del cavalier Palmi con le perversioni vertiginose di Von Masoch, suo gemello elettivo della scena (e della vita) nell’umiliazione parodistica dell’Io.
Nell’era dell’accesso, in cui tutti possono accedere a tutto, lui rivendicava l’umiliazione estrema di essere recluso in un corpo, il terrorismo spietato delle ossa, delle carni, delle giunture, di tutto il mondo in putrefazione cui consegnano ogni volta l’indispensabile pret-a-porter di un nome e un cognome.
Spesso misconosciuto come artista, quasi sempre rimosso o “aggiustato” come intellettuale. Era diventato, già dalla trasudata miseria delle cantine negli anni ’60 fino all’apice dei teatri lirici negli anni ’80, l’icona dei salotti snob romani, fiorentini e milanesi che collezionavano al suo cospetto orgasmi plurimi, puntualmente benedetti dall’equivoco e dall’incomprensione. Di cui Carmelo non si doleva più di tanto, consapevole che tanto rumore e tanti orgasmi aiutavano comunque ad alimentare il suo conto in banca e certi lussi indispensabili per l’anacoreta a pane e caffé nero che si avviava a diventare.
Nessuno che, per mancanza di fegato, ha mai voluto fare i conti con le sassaiole più perturbanti del suo pensiero, una su tutte la più volte dichiarata ostilità verso il concetto di democrazia che lui, alla Hobbes, considerava sinonimo di demagogia. Anatemi pubblici ogni volta smagnetizzati nella rassicurante chiave della “provocazione”.
Equivoco che non la smette di circolare con il suo rumore fesso dieci anni dopo e che anzi prospera nella divulgazione di chi pretende di ricordarlo al mondo con gli arcinoti stralci dei suoi show da Maurizio Costanzo. Forse il Carmelo meno interessante. Quello della sfida al pubblico. Il Carmelo elefante. Carmelo sapeva sempre essere un elefante tra le porcellane e una porcellana tra gli elefanti. Io mi sentivo intimo del secondo, anche se ero ipnotizzato dal primo.
Io che non mi stanco di ascoltarla la sua voce, dieci anni dopo. Solo per chiedermi quanto mi manca. E non finisci più di chiedertelo perché sei tu che, senza di lui, manchi a te stesso.
Trent’anni insieme
Era il 24 agosto del 1981. Bar del Teatro Quirino a Roma. Tu mi fai con l’occhio corsaro e simpaticamente malandro del corruttore nato: “Cosa fai nella vita?”. “Comincio tra due giorni in Rai”, dissi con malcelato orgoglio. Avevo vinto un concorso nazionale, terzo tra migliaia di concorrenti. Era la svolta per uno del mio stampo, 29 anni, ex studente, disoccupato, padre precocissimo con un figlio di nove anni. Mi arrangiavo in tutti i modi possibili all’epoca.
La tesi sul teatro shakespeariano di Carmelo Bene l’avevo scritta clandestinamente negli anfratti dei musei di Roma dove lavoravo come custode. “La Rai? Cazzate. Lascia stare, vai a perdere il tuo tempo, parti con me e Lydia in tournèe”. Scambiasti il mio silenzio per consenso e lo era. Nel frattempo Carmelo Bene aveva trasformato la mia tesi di laurea (“Il principe dell’assenza”) in un volume extralusso, rilegato in oro, edito da Giusti.
“Adesso vai dentro in sala e continua al posto mio”. Stavi provando il tuo Pinocchio. Mi ritrovai attonito con un microfono in mano a impartire le indicazioni di regia a due sconosciuti più attoniti di me, i due mimi ingaggiati per lo spettacolo. In quell’esatto istante, la mia vita era cambiata, precipitata, non potevo sapere dove. Sono andato, sono partito con te e non sono mai più tornato.
Non diventai giornalista Rai a causa tua. A causa tua diventai giornalista al “Messaggero”, due anni dopo. Avevo promesso a Gianni Melidoni, carismatico capo dello sport di allora, un’intervista con Carmelo Bene. Il giorno dopo, io e te litigammo di brutto. Si provava al teatro dell’Ateneo. Tu, Carmelo, dentro l’armatura di Macbeth, io in platea a prendere appunti. Mi dicesti qualcosa di sgradevole. Ero fragile in quel periodo e tu non perdonavi le debolezze quando si mostrano.
Nessuno, uomo, donna, compagna, amico, attrice, poteva resistere al tuo fianco più di due, tre anni, senza ridursi a un caso psichiatrico o a una larva da buttare. Carmelo era un fuoco sempre acceso, ustione allo stato puro. Io ero una larva da buttare. Carmelo Bene era troppo per chiunque, anche per se stesso. Ci riuscirono a stargli accanto Lydia Mancinelli e Luisa Viglietti, ma erano donne forti, una guerriera indistruttibile la prima, un’eroina della dedizione la seconda.
T’insultai a mia volta, ti lanciai contro le chiavi della macchina e tu, per afferrarle, memore dei tuoi trascorsi giovanili di portiere, quasi ti sei schiantato a terra con tutta la corazza. Scrissi lo stesso l’intervista. Non avevo bisogno d’inventarla. Misi insieme frammenti delle nostre, tante conversazioni notturne. Fu pubblicata con grande rilievo il giorno dopo. Esordii così da giornalista con un mezzo imbroglio.
Andai a ringraziare Melidoni il giorno dopo. Mi disse: “Mi ha appena chiamato Carmelo Bene, sosteneva di non aver mai dato quell’intervista...”. Mi sentii mancare. Avrei voluto che la terra si aprisse sotto di me per inghiottirmi. La mia storia di giornalista finita ancora prima di cominciare. “...Ma il tuo amico era chiaramente ubriaco...”, sfumò allegro Melidoni.
Una settimana dopo tu ed io eravamo tornati più amici di prima. “Per colpa tua Antognoni mi ha sfidato a duello”, mi dicesti al telefono.
Prima parte
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