RIUSCIRÀ SALVINI A RITROVARE LA FORTUNA POLITICA MISTERIOSAMENTE SCOMPARSA? PER NON PERDERE LA…
Pasquale Chessa per “il Messaggero”
«I più prelibati fichi, meloni e pesche» sono i cibi che Mozart quindicenne confessa di aver gustato con piacere nei cinque giorni passati a Bologna nel marzo del 1770. Prima che per i suoi salsiccioni, prototipo rinascimentale della moderna mortadella, prima ancora dei tortellini nati sul calco dell' ombelico di Venere, prima di lasagne e tagliatelle al ragù, fin dal Medioevo la reputazione del cibo bolognese è legata ai prodotti del territorio, dalle uve rinomate alle olive eccellenti, agli orti ricchi di frutti saporiti ed erbe profumate.
Il piatto più appetitoso è la famosa torta d' erbe, proprio quella che si vede in primo piano nel celebre Mangiatore di fagioli (1584) di Annibale Carracci: una misticanza di «bietole, petrosillo e maiorana» tenuta insieme da un ricco impasto di formaggio e uova, con pepe e zafferano e da ultimo una spruzzata di zucchero, usato come una spezia pregiata.
DUTTILITÀ
Ed è sulla duttilità della cucina bolognese, sulla sua disponibilità a lasciarsi contaminare, sul perfetto equilibrio fra tradizione e invenzione, che Massimo Montanari, studioso massimo di Storia dell' alimentazione, fa di Bologna l' archetipo locale della cucina nazionale. Simbolo di questa fusion culinaria che sancisce l' unità politica e culturale della penisola, è di certo la manchette pubblicitaria del ristorante torinese che sulla Stampa del 22 aprile 1898, vanta nel suo menù «Spaghetti di Napoli alla bolognese».
Che la cultura del cibo trascenda «la sua natura materiale», termometro di quel «processo di civiltà» che distingue il percorso storico dell' uomo sulla terra, ce lo spiega con passione un filosofo di assoluto prestigio, in un libro postumo che cattura l' intelligenza con un clic. Il titolo, L' eros gastronomico, si illustra con una spassosa aneddotica sessuale: dal racconto di Giacomo Casanova intento a istruire due educande a gustare le ostriche di bocca in bocca senza sprecare la loro acquerugiola di mare, alle mogli lussuriose che si cospargono di miele, etcetera...
Tullio Gregory non è stato solo un grande studioso della storia del pensiero, ma era posseduto da un genuino furore per i godimenti della tavola: un autentico e riconosciuto gourmet, un vero intenditore dal gusto sicuro e strutturato capace di giudizi inflessibili e travolgenti amori di cui sapeva dar conto con una scrittura chiara e profonda.
LE DIATRIBE
Sollevando spesso accanite polemiche e feroci diatribe, di cucina amava scrivere con competenza tecnica: sconsigliava per esempio l' uso delle pentole in acciaio, buone per bollire l' acqua, a favore dell' alluminio che insieme al coccio e alla ghisa garantiscono la bontà delle «lunghe cotture». Convinto che la cucina fosse una «scienza storica», si preoccupava della decadenza della «grande tradizione gastronomica italiana ...momento non marginale della nostra storia culturale e civile».
Grande era il suo dispetto verso la cucina creativa, seppure stellata, che insieme al cibo veloce ha finito per distruggere la memoria di quei sapori e odori, legati a quelle tecniche che di generazione in generazione sono il fondamento della quotidiana pratica del cucinare.
Nemica di ogni novità, la filosofia culinaria di Gregory, però, non resiste alle evidenze della storiografia messe luce da Montanari: senza l'innovazione la tradizione in cucina non esiste; così come non esistono gli spaghetti al ragù, invenzione regional-nazionale dei cuochi dell' Hotel de La Ville, un ristorante della Torino di fine Ottocento. È la «fusion», appunto!
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