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FABIO VOLO A CUORE APERTO CON SELVAGGIA LUCARELLI: ''HO LA CRISI DI TERZA ETÀ. ANCHE CON MIA MOGLIE. E MI SENTO INADEGUATO COME PADRE'' - LO SCRITTORE (LO È, ANCHE SE I COLLEGHI ROSICANO) RACCONTA QUARANTENA, SENSI DI INFERIORITÀ, LE PRIME SEDUTE CON L'ANALISTA, QUELL'INTERVISTA INFELICE A ''TV TALK''  E LA BATTUTA SUI GAY DETTA 20 ANNI FA IN RADIO CHE FECE SCATENARE ''IL POPOLO DEI FAX'' E OGGI LO FAREBBE LICENZIARE

 

Selvaggia Lucarelli per www.tpi.it

 

selvaggia lucarelli

Dovevamo parlare di quarantena e Coronavirus, e siamo finiti a parlare d’altro. Con Fabio Volo va così e non perché si sottragga ma, al contrario, per eccesso di generosità nel raccontarsi o forse per quel suo cercare di dire le cose il meglio possibile, di spiegarle anche un po’ a se stesso mentre te le spiega. Va in crisi solo quando gli chiedi della sfera più intima, cerca di dire con gentilezza che qualcosa nel suo rapporto con Johanna è andato in crisi, ma anche che sta lavorando su se stesso, sulla sua connessione con la sfera emotiva insieme a un analista. “Se mi chiedi come sto, io ti dico quello che penso, non quello che provo, è la parte di me su cui devo intervenire”, spiega.

 

Come è stata la tua quarantena?

È successo che a fine febbraio mio figlio più grande era in vacanza perché la scuola d’inglese era chiusa per la settimana bianca. Johanna era con i nostri figli e con una coppia che ha un bambino che va in classe con Sebastian, in Liguria. Io li avevo raggiunti il giovedì, poi la domenica hanno annunciato il lockdown e siamo rimasti lì, in una casa in affitto per due famiglie.

Una specie di comune hippy.

Sì. Senza le cose belle degli hippy.

 

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Tipo?

Senza le droghe. A parte gli scherzi, abbiamo vissuto in una dimensione molto bella, i bambini avevano gli amici e in più c’era un giardinetto. Siamo stati in una bolla.

Andavi a fare la spesa?

Se potevo saltavo i miei turni. A me piace stare in casa, ci resto quasi sempre, che poi è anche uno dei motivi di noia della mia compagna.

 

Come tutti i misantropi quindi hai vissuto bene la quarantena.

Io devo scrivere, leggere, pensare, la casa è la dimensione ideale. A Milano prima del virus mi concedevo giusto la palestra la mattina, quando non uscivo per lavoro.

In effetti notavo dalle foto su Instagram che da un po’ mostri un’inedita attenzione per il fisico. 

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È la crisi della terza età.

 

Volevo arrivare lì.

Ne sono cosciente. Mi è arrivata quella roba lì che dici: cazzo, vedo il declino, rallentiamolo. Non è che ho un bel fisico, cerco di arginare. Sto diventando come L’Avana, a qualcuno può anche piacere quella decadenza, ma ci vuole l’occhio del turista.

Ma da quanto hai questa crisi?

Da più o meno un anno.

Quale è stato l’evento scatenante?

Una serie di cose. I miei figli sono un po’ più grandi, io inizio a voler lavorare meno e la mattina, fino a prima della quarantena, mi ero concesso il personal trainer che non avevo mai avuto. È il sentire i 50 che si avvicinano.

 

Non c’è stata una cosa che hai detto: eh no, questo è sintomo di vecchiaia incombente?

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Il primo sintomo è quando il cameriere ti chiede se l’acqua la vuoi temperatura ambiente o frigorifero.

Perché?

Perché si preoccupa che non ti venga una congestione.

È il cambiamento fisico che ti ha spaventato?

Le ginocchia sono una spia importante. L’età la vedi da lì. A una donna devi guardare il ginocchio, è come contare i cerchi sui tronchi. Quando io faccio yoga e mi metto nella posizione del cane che guarda in giù, mi vedo le ginocchia, ecco lì è un dramma. Comunque dentro in fondo sono sempre stato un anziano.

 

In cosa saresti un anziano da sempre?

Mi piace fare le cose che fanno gli anziani: leggere, guardare i film, viaggiare come i pensionati, le calze bianche, le Birkenstock che mi ha fatto prendere Johanna.

Vuoi lottare contro la vecchiaia con le Birkenstock?

Giravo per la California con le Birkenstock.

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E allora è inutile che curi il fisico se metti le Birkenstock.

Ma tanto non ho mercato. Lo faccio per me, poi se torno single sarò più attento.

 

Quindi non sei single?

Non ancora.

A fine anno sono girate delle voci su una crisi della tua relazione, che dici?

Ma sì, ci sono le crisi, poi si ritorna, dove vuoi che si vada.

È più bello tornare dopo una crisi?

Cosa? Dici se è più bello il rapporto?

Eh.

Quando si supera una crisi, tu dici: ok, questa volta è andata, basta. Poi passa qualche mese, se sei fortunato un anno, e c’è un’altra crisi, un altro problema. È quella roba dei cancelli, non finiscono mai. Ma in fondo accade se sei vivo. A proposito. Stavo leggendo Marquez, “L’amore ai tempi del colera”, ti leggo un passo.

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Vai.

“Non ebbe mai la pretesa di amare e di essere amata pur avendo sempre la speranza di trovare qualcosa che fosse come l’amore ma senza i problemi dell’amore”.

Sei tu?

Ma guarda che io sono molto serio. O meglio, prendo molto seriamente la famiglia, più che la relazione la famiglia, perché sono italiano, ho quell’idea radicata della sacralità della famiglia.

 

Sei un po’ sfuggente. Non si capisce come stai.

Io devo lavorare sulla connessione, devo pensare meno e sentire di più. Il mio problema è che elaboro tanto con la testa. Se tu mi chiedi come sto, io ti dico quello che penso ma non quello che sento.

Nel 2016 hai detto che ci sono momenti della vita in cui non si perde e non si vince, ma si va a pari. Che momento è questo?

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Continuo con la mia insoddisfazione, con l’irrequietezza, quell’orizzonte lì per me non è mai finito: devo cercare, indagare, provare. Diciamo che sono a pari con la mia famiglia di provenienza, con gli amici, con quegli affetti. Mi sento a volte inadeguato come padre, anche nella relazione con Johanna, diciamo che ci sono sempre punti oscuri che fatico a decifrare, però sono abbastanza a pari con la mia esistenza.

 

Cosa fatichi a decifrare nella relazione?

Una volta che raggiungo una sorta di consapevolezza e dico “ho capito”, poi non ho capito un cazzo.

Rimescoli le carte.

Diciamo che appena ci metto il cappello sopra, dopo un po’ non c’è più niente sopra.

È colpa tua quindi.

Sì. Non sono mai definito in una cosa.

Quanta vaghezza.

Pensavo di aver faticato fino a 40 anni e poi di aver capito tutto, invece è sempre tutto più misterioso.

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Anche l’aspetto professionale?

Sì, lì è sempre tutto più impenetrabile. Mi sento un giocatore di calcio degli anni ‘80, uno che rispetto al mondo del lavoro di oggi ha un altro modo di giocare.

Quindi giochi meno?

Mi sono un po’ sottratto ultimamente e non perché non ricevo proposte per la tv o il cinema. È che non ho più il mio campo da calcio dove esprimermi come mi piace. Quando ho fatto “Orchite Show” su Instagram durante la quarantena ho riscoperto il piacere di giocare con il mio lavoro.

 

Cosa è cambiato?

Io sono della generazione degli imprenditori. Quando ho iniziato con Le Iene, Giorgio Gori ha avuto un approccio da imprenditore. Il programma andava male all’inizio, ci ha creduto, ha insistito. Ora c’è un approccio da manager, con una puntata che va male ti bruci. La tv ha bisogno di tempo. Io ora sono Fabio Volo, vendo milioni di libri, in tv devo fare per forza il 20 per cento. Se magari faccio il 5 perché sto sperimentando il giorno dopo non vedono l’ora di scrivere flop. Non c’è posto per la novità, per far crescere qualcosa in tv spesso ci vogliono anni e soldi, in questo momento storico non ci sono entrambi.

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È normale avere aspettative alte nei confronti di Fabio Volo.

Sì ma appena mostro il fianco, mi buttano giù, non vedono l’ora.

Mica avrai paura di fallire alla tua età, con la tua storia.

No però in televisione mi sono scottato più di una volta.

Per esempio?

Potrei citarti Untraditional. Gli addetti ai lavori, la gente, non lo capivano, dicevano: perché dovrei vedere un documentario sulla tua vita? Cercavo di spiegare che non era un documentario ma niente, non ci credevano, sembrava mi facessero un favore a farmelo fare. Poi ora lo sta facendo Verdone con Amazon, per dire.

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Chi è che non ti capiva?

Per dire, sono andato una volta in un programma tv che parla di tv.

Tv Talk?

Sì.

E?

Questa è la parte dell’intervista in cui mi inguaio ma lo dico lo stesso.

 

Addirittura. E che sarà mai successo.

Il presentatore, prima di iniziare, nei corridoi mi disse “Cavoli un po’ presuntuoso fare una serie su se stessi, un po’ egocentrico!”.

Parli di Bernardini.

Sì. Gli risposi: “Ma è un genere, c’era “Casa Vianello”, però non è che poi la Mondaini davvero la sera nel letto agitava le gambe e diceva “Che barba che noia!”. Si tratta di mocumentary, realtà e fantasia mescolate, non la dire questa cosa in tv perché sei un critico televisivo, dovresti saperle queste cose. Non puoi sentirti figo solo perché vai a parlare male della D’Urso, devi conoscere cosa succede nel mondo!”.

 

E in onda poi come è andata?

Ha ripetuto quella cosa lì e disse pure che io gli avevo detto di non dirlo, pensava che io mi vergognassi, che mi sentissi sgamato nel mio egocentrismo. Per quelli che lo guardano avrà pure fatto bella figura, per quelli come me no.

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Cosa non ti piace di tutte le cose che fai?

In ordine, la cosa che mi piace meno è la tv: troppi orpelli, troppi compromessi, troppe teste, troppe infrastrutture. L’ultimo programma che ho fatto su Rai 3 per dire: i primi tre giorni li consumavo risolvendo la burocrazia, e poi avevo due ore per la parte creativa. La radio accendi il microfono e parli. Il cinema è la seconda cosa che mi piace meno, è un lavoro statico, le scene da ripetere, le luci da sistemare, l’attesa. La radio e la scrittura invece sono sorelle.

 

Cosa non abbiamo capito di te fino ad oggi?

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Come personaggio sono spavaldo, arrogante, so tutto io. Ma è la timidezza che diventa spudoratezza. Nella vita privata sono l’opposto. Per dire, una cosa che mi fa sorridere è che c’ è la tendenza, anche sui social, a ridimensionarmi, mentre io sto facendo il lavoro opposto, quello di pensare finalmente di meritarmi quello che ho.

In che modo ti ridimensionano?

Solite cose, mi scrivono: sei un panettiere che ha avuto fortuna.

 

È un messaggio recente?

Di eri su Instagram.

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Cos’altro ti dicono ancora?

Ma tipo “Scrivi libri, ma non sei uno scrittore”.

E tu sei il primo a crederci.

Nella vita privata il mio analista mi dice: è ora che ti prendi i tuoi meriti.

Pensi di doverti meritare ancora delle cose?

Io per mia storia familiare ho sempre la sensazione di aver rubato qualcosa a qualcuno. O che… o che… quel qualcosa non me lo merito, non so. Vedi che mi incarto quando dico cose che mi toccano?

 

Non ti incarti.

Come se dietro i traguardi che ho raggiunto, ci fosse una specie di inganno, a quasi 50 anni questa sensazione me la porto ancora dietro, ecco.

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Cioè tu pensi di aver fregato tutti?

Di questo sono sicuro. Mi è chiaro. Scusa eh, eri figlio di, con 4 lauree e non sei riuscito a far niente. Arrivo io ignorante come pochi e mi prendo tutto, è chiaro che ho vinto.

Quindi cosa non è chiaro?

Il rapporto con me stesso.

 

Basta darti del panettiere per toccare quella corda sensibile?

Intanto io trovo che sia più dignitoso fare il panettiere che il deejay, se posso dire, almeno so fare una roba.

L’analista ti aiuta?

Sono andato 5 o 6 volte poi c’è stato il lockdown. Ha lasciato l’operazione a cuore aperto. Per fortuna la scrittura è autoanalisi, io mi salvo perché scrivo. Tu non vai dall’analista?

 

Sono andata una volta. Poi ho smesso perché sentivo che mi spingeva a dare la colpa di tutto ai miei genitori, agli altri e a deresponsabilizzarmi.

Ecco io il contrario: do la colpa a me di tutto.

il post di johanna maggy 2

Ti capita di sentirti vecchio rispetto a tutto quello che vedi intorno a te? Penso ai social, alle generazioni che anche artisticamente nascono lì.

Sì, il gioco è cambiato così tanto che faccio fatica.

 

Quando vedi TikTok, per dire, che pensi?

Ecco, io già a stare su Instagram mi sforzo, non mi viene naturale. Ora se firmi un contratto ti chiedono quanti follower hai. È disarmante. Io mi sforzo perché so che è utile al mio lavoro e se decido di giocare gioco, ma non è il mio gioco fare foto a tutto quello che faccio, a quello che mangio, mi violento. Ci sono dei giorni che mi va, altri in cui dico: non faccio un post da tre giorni, cavolo, devo farlo.

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Una specie di compito.

Il punto è che il produttore e il prodotto lì sei te. Sei entrambe le cose. Invece io faccio film, libri, radio, su quello che faccio c’è un prezzo.

Tradotto?

Oggi invece di comprare la Fiat la gente vuole sapere cosa fa Elkann, sono due cose diverse. Non vogliono più comprare macchine ma sapere che cazzo mangia a colazione Elkann.

 

Siamo vecchi.

Certo. È anche giusto. Ma non è che essere giovani oggi sia più semplice.

In che senso?

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Io uscivo di casa, andavo ai giardinetti, c’erano i miei amici. All’altro angolo della piazza c’era un’altra compagnia e così via. Non c’erano i vecchi, i genitori. TikTok è come andare alla tua panchina e trovarci tua mamma. Non sai più dove andare per non vedere più ‘sti cinquantenni che si mettono a fare i balletti su TikTok. Le panchine erano roba nostra, pensa trovarci sopra tua mamma che fa le pose sexy e le devi dire, tu a 15 anni: ma’ ti metti una maglia per favore?

fabio volo e johanna

 

Poi però ci sono anche i giovani che fanno i vecchi e arrivano a spiegarti la vita a 16 anni.

Non sanno più in che panchina andare per trovare i coetanei, c’è da capirli.

Forse essere vecchi oggi è non saper gestire questo fatto che le generazioni si incontrino negli stessi luoghi.

Le generazioni non si devono incontrare, si devono scontrare. La mamma non deve essere mai la migliore amica.

 

Prima hai detto che con i figli ti senti inadeguato. Perchè?

Il problema è l’equilibrio tra la salvaguardia di ciò che sono io come persona e il ruolo di padre. Lavoro tutto il giorno, non vedo i figli, sono le sette di sera, me la meriterò una birra con gli amici per parlare di niente, no? Sì, vado. Poi però torno, mio figlio dorme, non l’ho visto tutto il giorno e penso di essere un egoista. Se resto a casa con lui penso: però non c’è mai posto per me. Insomma, so che devo conservare delle cose che sono solo mie, che mi danno la gioia di vivere, perché non sempre io riesco a estrarre la gioia di vivere stando con i miei figli, ho bisogno di andarla a prendere anche da altre parti.

fabio volo spiaggia nudista

 

Qual è lo strumento che ti sei imposto di dare ai tuoi figli, quello che non sai cosa ne faranno ma tu glielo dai comunque?

Io dico sempre una cosa a loro e loro mi ripetono la risposta a memoria: “Qual è la cosa più importante? La gioia di vivere!”. Che non è nemmeno la felicità. Li voglio indipendenti, sono fortunato perché Johanna è islandese, ha la mentalità nordica.

Non hai paura che diventino qualcosa che non ti piace?

Sì, ma la mia forbice delle aspettative è abbastanza larga. Se poi mi diventano juventini, lì le cose vanno in crisi.

 

Insomma sei preoccupato più per te che per loro.

Sì, sto imparando a fare il padre facendo il padre.

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Tu e Johanna vi scontrate mai nell’educazione?

A volte si scontrano le due culture. Mi sento molto mamma italiana, lei è la mamma islandese. Se siamo a cena, lei si diverte. Io sono quello che chiama i nonni e chiede se va tutto bene, che va in vacanza in un posto e guarda quanto dista l’ospedale.

 

Chiudiamo con l’ultima polemica in ordine di tempo: quando hai detto che Ariana Grande va vestita in quel modo lì e ti preoccupa per le tue figlie.

Spero non riparta il merdone, ma provo a spiegarmi. Io ritengo che se il pubblico a cui ti rivolgi è quello della pre-pubertà, gli ammiccamenti sessuali siano una cosa sbagliata. Secondo me eh. Pre-pubertà vuol dire che un bambino non capisce la malizia dell’adulto, non ha gli strumenti per interpretarla e per me una ragazzina di 9 anni che fa ammiccamenti erotici è qualcosa di sbagliato.

 

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Se sentissimo le tue puntate radio di 20 anni fa chissà cosa ti direbbero oggi, con l’indignazione social sempre in agguato.

Ammazza. Guarda, ti racconto questo: ero ancora a Radio Capital tipo 20 anni fa. Una volta ho fatto una battuta dopo due mesi che ero in onda. Esco dalla diretta, c’era ancora il fax, sai quello col rotolo che non si interrompeva mai come la carta igienica. Era tutto srotolato per gli insulti che mi erano arrivati.

La prima shitstorm via fax della storia.

Uh. Faceva impressione.

 

Ma che avevi detto si può sapere?

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La sera prima ero andato a cena sui Navigli, c’era un amico gay che aveva fatto una di quelle battute che però possono fare solo i gay su loro stessi. Cioè, io posso parlar male dei bresciani perché sono bresciano, non posso parlar male di Napoli, ci sta. Beh, l’ho ripetuta in radio ma con innocenza. Non hai idea di cosa mi hanno scritto.

Me la dici questa battuta?

Nel locale non c’erano abbastanza sedie. Il mio amico disse: per noi gay basta girarla e ci sono 4 posti. E io l’ho ripetuta senza pensarci.

Oggi saresti licenziato.

Fortuna che non c’erano i social. Però te lo giuro: saranno stati almeno 7/8 metri di fax.

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