DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Pierluigi Battista per il “Corriere della Sera”
Considero un onore, e una fortuna, aver potuto conoscere e frequentare a lungo Alberto Ronchey, che manca da dieci anni nella vita di chi gli ha voluto bene, ma anche in quella di un giornalismo decisamente più povero senza di lui, senza le sue severe lezioni quotidiane, senza la sua scrittura non facile ma elegante e tersa, senza l' attaccamento accanito e quasi maniacale ai fatti.
Per raccontarlo nel libro-intervista Il fattore R , pubblicato da Rizzoli nel 2004, ho passato molto tempo con lui, deliziandomene, godendo di quella girandola di idee, ricordi, analisi, battute, calembour, riflessioni, idiosincrasie che facevano di Ronchey un vulcano sempre in ebollizione, sempre vivace e pungente anche quando l' età avanzava.
E ho passato anche molto più tempo del previsto, nei mesi di preparazione del libro, perché ad ogni manciata di minuti dovevo spegnere il registratore fino a quando l' intervistato aveva finito di controllare meticolosamente una data, un numero, un nome, una nazionalità russa, una citazione, per assecondare quella «psicosi da accertamento» che ne caratterizzava il modo di essere, quel culto della precisione, dell' esattezza, della verifica che in un giornalismo spesso sciatto e incline a tirar via, complice il tempo tiranno certo, ha rappresentato e tuttora rappresenta una virtù rara.
E se gli chiedevo se gli fosse mai capitato di sbagliare, malgrado le precauzioni previste dalla sua psicosi, lui esibiva un' espressione quasi disperata: «Ma certo, ho sbagliato anche io. Quante volte, figliolo?». E aggiungeva, con la sua autoironia impareggiabile: «Camminando sulla via, capita persino di immaginare che qualcuno ti denunci col dito puntato: "Ecco, è lui, e lui che ha sbagliato"», meravigliosa scena madre, e figlia, di un inarginabile senso di colpa.
Ronchey, anche in questo caso, non sopportava l' ipocrisia e la mancanza assoluta di sincerità di chi non vuole mai raccontare la verità su sé stesso: «Spesso la memoria è selettiva e autoindulgente, tutti hanno la tendenza a tener conto solo delle cose andate per il verso previsto e non di quelle su cui hanno commesso errori. Però questo è un mestiere in cui l' infallibilità non esiste».
Esisteva però, nel giornalista Ronchey, la fortissima determinazione, quella che appunto chiamava «psicosi d' accertamento», a ridurre quanto più possibile la fallibilità, a non rassegnarsi all' imperfezione, a non dargliela vinta in partenza.
Come? Semplice: studiando, non smettendo mai di studiare, di leggere, di informarsi, di non dare mai nulla per scontato, di avere la mente sempre pronta ad afferrare i dati che cambiano, le opinioni più consolidate, a mettersi in discussione, a viaggiare, a guardare le cose senza un punto di vista unico, senza uno schemino ideologico che altera e deforma i fatti per farne qualcosa di commestibile a una tribù, e tuttavia lontana dai fatti, dalla realtà. Cioè di interpretare seriamente il mestiere come faceva lui.
Di interpretare e raccontare. Ronchey ha viaggiato moltissimo, è stato nel cuore degli avvenimenti, si è avventurato in mondi sconosciuti. La sua descrizione del lungo viaggio in Transiberiana, tappa dopo tappa, è un racconto epico anche se segnato dall' incondizionata adesione ai fatti.
Non che Ronchey non avesse opinioni, anche forti e difese con grande combattività. Affrontando nel Fattore R il delitto Moro, per esempio, lui esprimeva analisi e interpretazioni molto nette, tra l' altro esposte con un gusto letterario maturato in anni e anni di letture sterminate: «Si faceva fatica a capire che Moro era la vittima della coda staccata dal vecchio drago stanco della rivoluzione leninista.
Oggi son tornate di moda riletture complottiste che non spiegano il dilagare negli anni Settanta d' un estremismo dei "mezzi" collegato a un preesistente estremismo di "fini", cioè di un' ideologia che si sente una verità assoluta anziché una semplice ipotesi. Era diffusa in quegli anni l' asserzione leninista che la società esistente non fosse tollerabile un giorno di più e che dinanzi alla violenza repressiva dello Stato il moto rivoluzionario sarebbe stato solo un contro-terrorismo».
pierluigi battista foto di bacco
Parole di una lucidità estrema che spazzano via, con la loro levigatezza concettuale, decenni di fumosità cospirazioniste. Del resto Ronchey era un nemico giurato delle sciocchezze complottiste. Con la sua precisione leggendaria disse di aver censito ben trentacinque teorie del complotto tra loro confliggenti per interpretare l' assassinio di Kennedy. Grazie alla sua attenzione ai dettagli aveva calcolato che le stelle rosse «accese sui più alti pinnacoli delle torri del Cremlino» pesassero «cento chili». Per prenderlo in giro, e prendere in giro il suo attaccamento ai numeri, alle cifre, ai fatti, Fortebraccio lo chiamava «l' Ing.Ronchey»: pensava, tipico figlio del pressapochismo italiano, di deriderlo, ma non immaginava di fargli un piacere.
Accanto alle cifre che sciorinava con invidiabile esattezza, però, Ronchey fu inventore di formule suggestive di grande successo, come si dice, mediatico. Fu lui a coniare negli anni Sessanta la formula «lottizzazione» per designare la pratica, trionfante anche adesso a destra e a sinistra, dell' occupazione dei partiti della Rai. Coniò anche la formula «fattore K» per esprimere la legge inesorabile che, in piena guerra fredda, impediva la conquista del potere in Occidente alle sinistre egemonizzate dai comunisti e non dalle forze socialiste o socialdemocratiche.
Era uno spirito pratico e pragmatico, Alberto Ronchey, e il periodo del suo incarico di ministro ai Beni culturali ne testimonia la forza positiva e riformista. Era un onore e una fortuna conoscerlo.
Dieci anni dopo la sua scomparsa ce ne rendiamo conto sempre di più.
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