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Vittorio Feltri per Il Giornale
Si sa che d'estate la Rai sfrutta le repliche dei programmi di successo, tra i quali non manca qualche porcheria.
Ma non è questo il punto. Anche perché non siamo nati ieri: abbiamo la consapevolezza che l'azienda è afflitta da problemi di bilancio, dovendo retribuire circa 13mila dipendenti di cui ignoriamo le prestazioni, ma non lo scarso rendimento e il diritto (conquista sindacale) di andare in vacanza. Pertanto non ci stupiamo che in luglio e in agosto essi si assentino, abbandonando gli utenti (clienti) al loro destino di inerti e passivi spettatori di trasmissioni già mille volte viste e riviste.
Non ci passa per la testa di protestare: sarebbe un esercizio totalmente inutile. Ci limitiamo a osservare che la presa in giro degli abbonati rientra nella tradizione e, forse, nelle clausole contrattuali. Non siamo teledipendenti, ma ogni giorno diamo un'occhiata al video e ci rendiamo conto, con poca fatica, che il palinsesto dell'ex monopolio è una specie di solaio nel quale si recupera di tutto e di più, anticaglie comprese, allo scopo di coprire da mane a sera ogni spazio tra una pubblicità e l'altra. Avviene questo da sempre, cosicché siamo rassegnati a bere l'aceto al posto del vino. Uno scandalo ripetuto all'infinito non è uno scandalo: è una cattiva abitudine.
Fatta questa obbligatoria precisazione, segnaliamo ai lettori che la fiction Don Matteo continua ad andare in onda, ottenendo il consenso del pubblico, come si evince dai dati di ascolto. Le puntate si susseguono con regolarità e nessuno si accorge che si tratta di minestra riscaldata e perfino rancida. Perché? Le storie del prete investigatore indefesso sono prodotte in serie, come dentifricio i cui tubetti, anche se mutano foggia, contengono immancabilmente la stessa pasta, talvolta anticarie, talvolta alla clorofilla, in ogni caso finalizzata all'igiene della bocca.
Poiché un paio di volte al dì ciascuno di noi si lava con soddisfazione i molari e gli incisivi, e non avverte la noia tipica della ripetitività, allo stesso modo e con il medesimo spirito - con l'intento di adempiere a un dovere - si sciacqua quotidianamente il cervello con gli episodi di Don Matteo , che hanno la caratteristica di essere tutti uguali.
Continuavano a chiamarlo Trinita? bud spencer terence hill
Essi sono ambientati a Gubbio (dove San Francesco fraternizzava con i lupi), bellissima cittadina umbra nella quale pensavamo non accadessero ogni cinque minuti terribili fatti di sangue. Ci sbagliavamo. In effetti, stando alla fiction, Gubbio è peggio di New York: la gente si ammazza con voluttà e senza requie, al ritmo di un morto a puntata. E qui viene il bello. Non sono i carabinieri a smascherare l'assassino (gli assassini): è il parroco interpretato da Terence Hill, che, nella circostanza, non indossa i consueti abiti sdruciti del cowboy, abile nel pugilato e nel tiro con la pistola, bensì quelli del sacerdote, tonaca lunga a lambire i piedi.
Il risultato non cambia: egli è ancora il braccio - non più armato ma pio - della giustizia terrena. Terence, pur avendo cambiato veste rispetto ai tempi in cui lavorava con Bud Spencer, è rimasto un attore della Madonna: la sua espressione facciale non si è modificata, e non varia sia che si celebri un funerale sia che si amministri un battesimo. Egli, nel ruolo di prevosto o in quello di frequentatore irrequieto dei saloon del West, è identico: gli occhi celesti fissano un omicida o il crocifisso con marmorea indifferenza. La sua recitazione è ammirata per questo: non emoziona, rilassa, concilia il sonno.
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