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Antonello Guerrera per “la Repubblica”
La folla che tante conquiste ha ottenuto in passato oggi è soltanto uno sterile sciame. Il mondo virtuale ha perso ogni distanza e quindi rispetto. L’anonimato e la trasparenza sul web sono un male assoluto.
La cultura della “condivisione” è la commercializzazione radicale della nostra vita. Internet non unisce, ma divide. Genera un venefico narcisismo digitale. La sua estrema personalizzazione restringe, paradossalmente, i nostri orizzonti. E divora le fondamenta stesse della democrazia rappresentativa.
A dirlo è Byung-Chul Han: 55 anni, filosofo tedesco-sud coreano con un passato nella metallurgia e brutale critico della Rete e del globo interconnesso. Se per alcuni è solo un catastrofico luddista, per altri Han è un lucido visionario del “mondo nuovo”. E, dopo i fortunati La società della stanchezza e La società della trasparenza , nel suo ultimo saggio, Nello sciame. Visioni del digitale ( ed. Nottetempo), Han affetta, con taglienti anatemi, i pilastri di Internet e della società digitale.
«Quale democrazia è oggi possibile», accusa Han, «rispetto a una sfera pubblica che scompare di fronte a una crescente trasformazione egotica e narcisistica? Forse una democrazia con il tasto “mi piace”?».
Se nel 1895 Gustave Le Bon profetizzava “l’età delle folle”, per “l’apocalittico” Han oggi abbiamo a che fare «con uno sciame digitale, e cioè un insieme di individui» ottimisticamente “integrati” nella Rete (per dirla alla Umberto Eco) ma allo stesso tempo isolati.
Allo sciame manca l’anima e lo spirito della vecchia folla, perché se la prima «marciava in un’unica direzione, formando massa e dunque potere», oggi lo sciame non si raduna fisicamente e «non sviluppa un’unica voce, un Noi». Se per Marshall McLuhan l’homo electronicus era Nessuno, per Han l’ homo digitalis è un Qualcuno anonimo. Che con i suoi simili riesce a plasmare soltanto una misera moltitudine.
E quindi che ruolo ha oggi questo sciame, professor Han?
«Lo sciame digitale non crea un “pubblico”. Non conduce al dialogo o al discorso, che è il cuore di una democrazia. Una vera comunità democratica non è né massa né sciame, ma un pubblico che discute. Non a caso, il Partito Pirata in Germania si è liquefatto. Volevano essere un anti-partito, ma poi si sono dovuti organizzare come i vecchi partiti. Il mezzo digitale distrugge le basi della comunità e della cittadinanza».
Che rapporto c’è tra lo sciame e le ondate di indignazione online o, peggio, di offese gratuite che lei chiama “shitstorm” (“tempeste di sterco”), spesso generate da utenti anonimi?
«Il mezzo digitale è strettamente legato a uno stato di eccitazione. In passato, se si voleva contestare qualcuno, bisognava procurarsi carta e francobollo, scrivere una lettera, imbustarla, eccetera. Un lungo processo che scaricava l’eccitazione. Oggi, invece, basta un clic per indignarsi e scatenare online “shitstorm” diffamatorie. Spesso la comunicazione digitale ha un enorme frastuono di sottofondo e ci fa perdere la capacità di ascoltare, facoltà cruciale della democrazia. Eppure, solo nel silenzio possiamo trovare “l’altro”.
La crisi dello spirito è anche una crisi di comunicazione, scriveva Michel Butor. Inoltre il web, mescolando pubblico e privato, abbatte ogni distanza e, conseguentemente, il rispetto, che sussiste solo quando è legato a un nome, a un’identità. Tuttavia, vietare l’anonimato online non è una soluzione: faciliterebbe di molto la sorveglianza totale dei cittadini».
A questo proposito, lei negli anni ha criticato molto la “trasparenza”, anche in politica. Perché?
«La trasparenza agevola senz’altro lo scambio di informazioni. Ma quando le informazioni sono eccessive e troppo facili da reperire, ecco che il sistema sociale passa dalla fiducia al controllo. La società della trasparenza si regge su una struttura molto simile alle società della sorveglianza. E quando diventa tutto così aperto, anche la politica e la democrazia rappresentativa vanno in affanno, si riducono al chiacchiericcio. L’ansia della trasparenza totale costringe la politica a una caducità temporale che rende impossibile programmi a lungo termine».
E perché secondo lei la trasparenza online appiattisce, oltre alla politica, anche la lingua e la cultura?
«Perché la trasparenza è di per sé pornografica. Vuole spogliare qualsiasi cosa, trasformare tutto in informazioni. Per questo non ha niente a che fare con l’arte, cui appartengono il segreto e il nascosto, o con la bellezza».
Bellezza che, invece, online si riduce secondo lei a puro narcisismo, se solo pensiamo ai selfie. Come mai?
«Il mezzo digitale incarna autorappresentazione e autoesibizione. Il narcisismo di oggi è sintomo di un abissale e intrinseco vuoto dell’io, in crisi d’identità e sempre più irrequieto. Del resto, nella nostra epoca nulla ha durata e stabilità. E così, questo Io ansiogeno genera la dipendenza dai selfie. Qui non c’entra la vanità. Non abbiamo a che fare con un io stabile e narciso che ama se stesso, bensì con un narcisismo negativo».
Ma non teme di avere una considerazione troppo negativa dei nuovi mezzi digitali? Ci hanno facilitato la vita, oltre a favorire lo scambio di idee e informazioni.
«Il mezzo digitale ha un enorme potenziale di emancipazione. Però, secondo me, sta diventando sempre più uno strumento di sorveglianza. Questo è preoccupante».
Nel suo libro c’è un’immagine sontuosa: dall’“agire” siamo passati a “giocare con le dita”. Con gli smartphone, ma paurosamente anche nel lavoro.
«Se con i nuovi mezzi digitali il lavoro diventa sempre più un gioco, il gioco viene a sua volta sfruttato per aumentare sempre più efficienza e produttività. Ma c’è di più: in questo contesto, il lavoro diventa totalizzante. E, visto che siamo sempre raggiungibili, esclude assolutamente l’ozio e il tempo libero. Contempla solo una pausa. Che però è un prodotto stesso del lavoro. Il tempo libero è ben altra cosa».
E allora cos’è oggi la libertà?
«Il potere alla base del neoliberismo non è repressivo, ma ammaliante. E soprattutto, a differenza del passato, invisibile. Quindi non c’è un nemico concreto che limita la nostra libertà. Le figure di lavoratore sfruttato e libero imprenditore spesso coincidono. Ognuno è padrone e servo di se stesso.
Anche la lotta di classe è diventata una lotta contro se stessi. Il neoliberismo fa sì che la libertà si esaurisca da sola: la società della prestazione prepone la produttività alla repressione proprio grazie a un eccesso di libertà, che viene sfruttata in tutte le sue forme ed espressioni, dalle emozioni alla comunicazione. Oggi la libertà è una costrizione. Il compito del futuro sarà proprio quello di trovare una nuova libertà».
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