DAGOREPORT - BLACKSTONE, KKR, BLACKROCK E ALTRI FONDI D’INVESTIMENTO TEMONO CHE IL SECONDO MANDATO…
1. EDONISMO E SENSUALITÀ: QUEL POP HA LIBERATO GENERAZIONI DI GIOVANI (E NON SOLO)
Massimiliano Panarari per “la Stampa”
«I tempi stanno cambiando». Così cantava Bob Dylan e così il mondo giovanile dell’Occidente cambiava i propri gusti. Andando in una direzione che ci siamo giustamente abituati a chiamare pop, fatta di cultura di massa e di sottoculture di gruppi, nicchie e «tribù». Ciascuna delle quali portatrici di stile ed estetiche che risultarono dirompenti agli occhi delle generazioni in grisaglia e con le gonne lunghe.
Pochi come Fiorucci hanno saputo intuire e interpretare questo cambio di fase, traducendolo in modi di vestirsi, di stare insieme e di costruire «comunità». Anche in Italia, grazie a lui, entravamo nella dimensione della «performing society» e del bisogno di rivendicare la specificità dell’essere giovani (e del voler continuare a esserlo il più a lungo possibile...). Fiorucci è stato un autentico rabdomante dello spirito dei tempi e, quindi, nell’Italia al passaggio tra gli Anni 60 e 70, un rivoluzionario dello stile e un precorritore-inventore.
Dotato di passione e di talento per la comunicazione di rottura, ha disseminato il nostro Paese di spunti, segni e trovate provenienti da quel mondo anglosassone in cui tanto stava accadendo e si aprivano spazi, fino ad allora soffocati, alla febbre di vivere (e al desiderio di autorappresentarsi) dei giovani. È anche grazie a lui, infatti, che la «grigia Milano» dei travet e dell’industria fordista si è colorata di più, facendosi un po’ Swinging London e un po’ San Francisco degli hippies (ma pure un po’ Grande Mela e Villaggio Globale).
Si spalanca così una finestra sull’universo di lingua inglese percorso da venti di trasgressione e gioia di vivere. A San Babila nasce non un «negozio qualsiasi», ma quello che si può considerare il primo concept store della Penisola e un’antenna di tendenze. E da quel momento in poi continuerà a essere sempre così, lungo i «suoi» adorati Anni 70, che nulla avevano a che spartire con la mefitica e dolorosa cappa degli anni di piombo, rispetto a cui si collocava agli antipodi.
Fino ai nostri giorni, attraverso quegli Anni 80 e 90 che consacreranno il designer come icona del «fashion democratico» e alfiere dello street style, nonché pioniere della via nazionale al postmoderno, improntata a «parole d’ordine» come felicità, edonismo, disimpegno, leggerezza e sensualità.
Le sue boutique sono state dei magneti di consumi e culture giovanili, tra i famosi fashion jeans, la musica e gli hamburger prima della gastromania, mentre i negozi nelle metropoli Usa lo hanno imposto tra i protagonisti del jet-set e della scena pop internazionale, con amici come Andy Warhol, Keith Haring (che nell’84 venne a decorare lo store di San Babila) e Jean-Michel Basquiat, incrociando una Madonna alle primissime armi. Pieno di vitalità e curiosità, eclettico, allergico ai benpensanti e alla politica, ma geneticamente molto peace&love, al «superfunky» Fiorucci è riuscita un’impresa rara, che Oscar Wilde gli avrebbe invidiato. Fare della propria vita un’opera d’arte (naturalmente, quella pop).
2. D’AGOSTINO: LA SUA RIVOLUZIONE DA CARNABY STREET ALL’ITALIA
Michela Tamburrino per “la Stampa”
San Babila a Milano come trait d’union: il grande store di Elio Fiorucci che in Galleria interpretava la tendenza di strada e il primo fast food nel salotto buono che dava luogo ai paninari. Roberto D’Agostino, uno dei più attenti studiosi del costume, rintraccia l’identità in due momenti che hanno segnato la società giovanile italiana.
D’Agostino, muore Fiorucci e McDonald di San Babila chiude. C’è un nesso?
«Ovviamente Fiorucci ha rappresentato qualcosa di molto più importante. Capitato a Carnaby Street, capì che il mondo stava cambiando. Sguinzagliò i suoi in giro per il mondo, nelle discoteche, nei luoghi d’aggregazione dei ragazzi. Il compito era riportare quello che indossavano, la musica rock che ascoltavano.
Aveva creato il casual e un nuovo soggetto sociale. Dal suo megastore in piazza San Babila rivestì il mondo senza avere mai l’aria dello stilista. Invece influenzò per felice intuizione tutto l’universo della moda veloce».
I marchi che sarebbero arrivati?
«Non solo quelli, anche il punk, il pop. Vidi Keith Haring, il pittore e writer americano che fece nel negozio una famosa mostra».
Invece McDonald che cosa ha rappresentato?
«Il fenomeno paninaro. C’erano le Timberland, ci si rifaceva ad American Graffiti e i bar erano un gran punto di riferimento di un ambiente di plastica».
Un fenomeno di massa?
«Per un certo tipo di gioventù l’aggregazione era di moda. McDonald non ha creato nulla, ma lì si andava a formare il punto di ritrovo diurno. E, siccome la cornice fa il quadro, dava un simbolo senza simbolismi: era solo un fatto di modernità, un posto dove i loro genitori non andavano. Oltretutto c’era il cibo democratico che permetteva per pochi soldi di stare insieme».
Se ne parlò anche a «Quelli della notte».
«Lì facevo il lookologo e ne parlai. Era uno stile che veniva considerato con molto disprezzo dalla sinistra».
Perché?
«Gli Anni 80 hanno spazzato via le ideologie degli Anni 70, quelle atmosfere cupe da Eskimo e giubbotto. La morte di Moro azzera tutto e dopo solo l’abito rappresenterà una personalità, darà un senso di club, di tribù. Facevano i Fonzie e la sinistra li ritenne cretini. Ricordo ancora Michele Serra che scrisse peste e corna di Jovanotti. Solo io osai firmare la prefazione di un suo libro. Era arrivata una bella époque, era arrivata l’allegria anche paninara».
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