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Lettera di Antonio Franchini* a “La Repubblica”
Caro direttore, trent’anni fa partecipai a un dibattito sui premi letterari. Mi chiamarono probabilmente solo perché facevo l’editor in Mondadori e presumevano ne capissi qualcosa. In realtà non ne sapevo ancora niente.
Per fortuna c’era anche Giuseppe Pontiggia, che a quel tempo aveva una consulenza in Mondadori ed è stato uno dei pochi dal quale ho assorbito tutto il poco che so su come interpretare la vita culturale di questo Paese. In sostanza Pontiggia disse questo: «Ogni premio letterario è, da un certo punto di vista, una sciocchezza.
Pretendere di mettere in competizione due opere d’arte e due, o più, artisti, come in una corsa di criceti, è semplicemente stupido. Quindi, ogni premio letterario, non importa quali siano le sue regole, è un’insensatezza. Dall’altra parte, però, in ogni opera d’arte, anche la più estrema, la più inconciliabile, c’è qualcosa che richiede l’approvazione, il consenso di qualcuno. Andare a premiare quel “qualcosa” dell’opera d’arte non solo è legittimo, ma è quasi doveroso ».
Ogni premio dato a un’opera o a un’artista, che implichi o no una competizione, vive questa contraddizione. Questo disse Pontiggia, uno scrittore molto amato da me e poco da Moresco, perché, pur apprezzando la forza e la scrittura de Gli esordi, ne sconsigliò, alla fine, la pubblicazione in Mondadori.
Non mi ricordo precisamente come andò, ma forse fui io stesso a dirlo a Moresco, commettendo un grave errore deontologico. Se si rifiuta un libro perché un consulente autorevole si oppone (fatto che nell’editoria contemporanea non avviene più) non si va a dirlo all’autore. Ero giovane, ingenuo e incauto, forse anche spaventato. Io non mi sarei detto spaventato, ma noi non siamo i migliori giudici di noi stessi e così mi vide e mi descrisse Moresco in un paio di pagine molto belle di Lettere a nessuno in cui racconta quell’episodio.
Oggi passo per essere, come dichiara Paolo Repetti, «un editor esperto e smaliziato» e non corro il rischio di fare nomi e cognomi, perché nei rapporti profondi con i suoi autori la riservatezza dell’editor o dell’agente letterario sta tra quella del sacerdote col peccatore e dell’analista col paziente.
Ma, ammesso che di peccato si tratti, se non si possono fare i nomi dei peccatori, del peccato si potrà ben parlare. E questo voglio dirlo e ribadirlo, forte e chiaro: non ho mai incontrato, in tanti anni di carriera, uno scrittore italiano che non volesse andare al premio Strega.
Certo, cambiano gli stili. C’è chi lo pretende e chi si degna di accettarlo, chi lo suggerisce, chi ci gira attorno, chi non lo esclude, chi allude a: «magari un premio, un premio importante... ». Chi lo negasse con orrore (ma ripeto, io non ne ho conosciuti) assomiglierebbe a quelle vergini intatte e disdegnose che facevano la gioia dei porno soft degli anni Settanta e finivano come finivano.
E invece non c’è quasi edizione del premio in cui non ci sia cronista culturale che scopra come il vincitore o uno dei contendenti abbia detto, anni prima, peste e corna dello Strega. Come avesse scoperto chissà che. Pretendere dagli altri la coerenza che non si è mai avuta con se stessi è una delle prime occupazioni dell’umanità. Pretenderla dagli artisti, poi, è doppiamente stupido, come se potesse esistere arte senza contraddizione.
Lo possiamo chiamare Strega paradox, come il French paradox per cui, pur mangiando cibi grassi, i francesi avrebbero una bassa incidenza di malattie cardiovascolari. Così, pur sapendo che allo Strega si vota principalmente per schieramenti e appartenenze, che l’incidenza della lettura dei testi tra i votanti è bassa e che la valutazione serena dello “specifico letterario” (possiamo chiamarlo così?) è inesistente, tutti ci vogliono andare.
Questo, naturalmente, a tutta gloria dello Strega. Per come si è svolta tutta la mia vita professionale sono una delle ultime persone che possa parlare “contro” il premio, ma per le stesse ragioni sono una delle persone più autorizzate a parlare “del” premio.
Ho partecipato, da editore, per la prima volta nel 1991. Ci si aspettava che Vincenzo Consolo completasse Nottetempo, casa per casa per tempo, ma Consolo non ce la fece. Corremmo con Gina Lagorio, che Anna Maria Rimoaldi, per vent’anni padrona indiscussa dell’istituzione, detestava. Riuscì a far vincere Volponi, per la seconda volta. Avremmo vinto con Consolo l’anno successivo. Ho corso, con i colleghi della Mondadori, tante edizioni del premio, vincendo e perdendo.
Ho visto molte cose, non astronavi in fiamme ai cancelli di Orione, ma amici perdere per due voti o vincere nello schieramento avverso. Quest’anno ci eravamo preparati a un’edizione di lotta con uno scrittore inconciliabile e radicale e con un editore coraggioso come Giunti. Cosa che, in effetti, sta succedendo. Non è, credo, una contraddizione per uno scrittore così partecipare al premio. È, sarebbe stato, un arricchimento per il premio e penso sia un errore del premio averlo tenuto fuori.
Non ci sono nomi da fare, dico al professor De Mauro, ma trovo perfettamente normale che le terrazze di via Fratelli Ruspoli che per noi rappresentano casa, a uno scrittore che ha sempre vissuto solo per la sua arte, possano fare orrore. Moresco è ingenuo e dalla sua ingenuità guarda il mondo e contro il mondo lotta.
Questa è una virtù? Credo di sì. Noi siamo realisti, contiamo i voti, facciamo alleanze. Dall’alto di una collina guardiamo gli uomini, gli scrittori che si scannano mettendoci la faccia. In fondo, l’hanno voluto loro. Questo è un pregio? Non ne sono sicuro.
ANTONIO FRANCHINIANTONIO MORESCO
*Antonio Franchini è direttore editoriale di Giunti
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