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GAY TALESE: ‘’VOLEVO INTERVISTARE FRANK SINATRA MA HA UN RAFFREDDORE. E SINATRA CON UN RAFFREDDORE È UN PICASSO SENZA I COLORI, UNA FERRARI SENZA CARBURANTE - SESSANTA PARRUCCHINI PER “THE VOICE” - IL DIETRO LE QUINTE DELLA PIÙ CELEBRE TRA LE NON-INTERVISTE

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Estratto del libro di Gay Telese “Frank Sinatra has a cold” pubblicato da “la Repubblica”

 

Nell’inverno del 1965, l’Esquire mi spedì a Los Angeles per un’intervista a Frank Sinatra che l’addetto stampa dell’artista aveva concordato con il direttore della rivista. Ma dopo che mi ero registrato al Beverly Wilshire Hotel, che avevo prenotato un’auto a noleggio nel garage dell’albergo e avevo passato la serata in una stanza spaziosa a digerire una spessa mole di materiali su Sinatra, insieme a una bistecca altrettanto spessa accompagnata da un buon Borgogna californiano, ricevetti una telefonata dall’ufficio del cantante che mi informava che l’intervista programmata per il pomeriggio del giorno dopo non avrebbe avuto luogo.

 

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Sinatra era molto turbato dagli ultimi titoli sulla stampa a proposito dei suoi presunti legami con la mafia, mi spiegò la persona al telefono, aggiungendo che mister Sinatra si era anche preso un raffreddore che metteva a rischio una sessione di registrazione in studio prevista per i giorni successivi, in cui io speravo di avere l’occasione di osservare il cantante al lavoro. Forse, una volta che mister Sinatra si fosse ristabilito, e se magari avessi anche inviato la mia intervista all’ufficio di mister Sinatra prima della pubblicazione sull’Esquire, avrebbero potuto fissarmi un altro appuntamento.

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Dopo aver espresso la mia solidarietà per il raffreddore di mister Sinatra e per gli articoli sulla mafia, spiegai che ero obbligato a rispettare il diritto del mio direttore di essere il primo giudice del mio lavoro; ma chiesi se potevo telefonare all’ufficio di Sinatra qualche giorno dopo, nel caso la sua salute e il suo umore fossero migliorati sufficientemente da potermi accordare un breve incontro. Potevo telefonare, mi disse il portavoce del cantante, ma non mi prometteva nulla.

 

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Per il resto della settimana, dopo aver informato della situazione Harold Hayes, il direttore dell’Esquire, feci in modo di intervistare un po’ di attori e musicisti, dirigenti di studi cinematografici e produttori discografici, proprietari di ristoranti ed esponenti del gentil sesso che avevano conosciuto Sinatra nel corso degli anni. Dalla maggior parte di loro tirai fuori qualcosa: una briciola di informazione qui, una pennellata di colore là, piccoli tasselli di un grande mosaico che speravo riuscisse a rispecchiare l’uomo da decenni al centro della scena.

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Procedevo con le mie interviste (ogni giorno offrivo pranzi e cene a qualcuno) senza mai tirare fuori dalla tasca penna e taccuino. Usare un registratore, che peraltro non possedevo, avrebbe rischiato di rovinare l’atmosfera rilassata, incoraggiata (era quello che credevo) dal mio atteggiamento poco incalzante e dalla promessa che non avrei attribuito o citato in modo riconoscibile nulla di ciò che mi dicevano senza ricontattare la fonte per avere conferma e chiarimento.

 

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Dopo aver cercato senza successo di fissare una nuova intervista con Sinatra durante la mia seconda settimana a Los Angeles (mi dissero che aveva ancora il raffreddore), continuai a incontrare persone che lavoravano in una delle sue tante società (la sua casa discografica, la sua compagnia cinematografica, la sua società immobiliare, la sua azienda per la produzione di componenti per missili, il suo hangar per aerei) e vidi anche persone che avevano un legame più personale con il cantante, come il figlio, schiacciato dalla personalità paterna, il suo sarto a Beverly Hills, una delle sue guardie del corpo e una donnina dai capelli grigi che aveva viaggiato con Sinatra per ogni parte del Paese durante i tour, trasportando in una borsa i suoi sessanta parrucchini.

 

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L’elemento più importante che uscì fuori da quelle interviste fu la scoperta che moltissime di queste persone, che vivevano e lavorano in posti così disparati, erano a conoscenza del fatto che Frank Sinatra aveva il raffreddore. Quando alludevo all’argomento, indicandolo come la ragione per cui la mia intervista era stata rimandata, dicevano che sapevano del raffreddore e sapevano anche che quando gli faceva male la gola e gli colava il naso non era consigliabile stargli intorno. Alcuni mi citarono esempi che dimostravano quanto fosse stato nervoso e irritabile tutta la settimana perché non era in grado di cantare ai suoi livelli.

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Una sera, in albergo, annotai nei miei appunti:

... Sinatra è malato. È vittima di un malanno talmente comune che la maggior parte delle persone lo giudicherebbe banale. Ma se colpisce Sinatra è capace di precipitarlo in uno stato di angoscia, depressione profonda, panico, perfino rabbia. Frank Sinatra ha un raffreddore. Sinatra con un raffreddore è un Picasso senza i colori, una Ferrari senza carburante. Anzi, ancora peggio: perché il comune raffreddore priva Sinatra di quel gioiello non assicurabile, la sua voce, affondando il coltello nel cuore della sua sicurezza; e oltre a colpire la sua psiche sembra provocare una sorta di gocciolamento nasale psicosomatico in decine di persone che lavorano per lui, bevono con lui, dipendono da lui. Un Sinatra col raffreddore può scatenare ripercussioni in tutta l’industria dell’intrattenimento e oltre, così come un’improvvisa malattia del presidente degli Stati Uniti rischia di scuotere l’economia nazionale…

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Il mattino seguente ricevetti una telefonata del direttore delle pubbliche relazioni di Frank Sinatra. «Ho sentito che va in giro dappertutto a incontrare gli amici di Frank, che li porta a cena », cominciò, quasi in tono accusatorio.

«Faccio il mio lavoro», dissi io. «Come va il raffreddore di Frank?». (Improvvisamente eravamo in confidenza.) «Molto meglio, ma ancora non vuole parlare con lei. Ma può venire con me domani pomeriggio a una registrazione televisiva, se vuole. Frank proverà a registrare una parte del suo special sulla Nbc… Si faccia trovare fuori dall’albergo alle tre. Passerò a prenderla».

 

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Il pomeriggio seguente, l’impeccabile addetto stampa di Sinatra passò a prendermi con una Mercedes decappottabile: era un uomo dalla mascella quadrata, i cappelli rossicci e la pelle abbronzatissima; indossava un tre prezzi di gabardina per cui gli feci i complimenti, spingendolo ad ammettere che lo aveva ottenuto a un prezzo speciale dal sarto preferito di Frank. Durante il tragitto, la nostra conversazione rimase amabilmente incentrata su argomenti come i vestiti, lo sport e il tempo, finché arrivammo all’edificio della Nbc. 

 

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Seguii l’addetto stampa attraverso un corridoio, fino a un enorme studio dove campeggiava un palcoscenico bianco, pareti bianche e decine di lampade e riflettori appesi ovunque. Sembrava una gigantesca sala operatoria. Raccolto in un angolo della stanza dietro al palcoscenico, in attesa che arrivasse Sinatra, c’era un centinaio di persone: cameramen, consulenti tecnici, pubblicitari della Budweiser, giovani donne attraenti, le guardie del corpo e i tirapiedi di Sinatra, e anche il regista dello show, un uomo cordiale dai capelli biondo rossiccio di nome Dwight Hemion, che conoscevo da New York perché le nostre due figlie andavano all’asilo insieme.

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Mentre chiacchieravo con Hemion, orecchiavo le conversazioni intorno a me e ascoltavo i quarantatré musicisti, seduti in smoking sul palco dell’orchestra, mentre accordavano i loro strumenti, la mia mente formicolava di idee e impressioni; e avrei voluto tirar fuori per un paio di secondi il mio taccuino, ma sapevo che era meglio di no. Eppure dopo due ore nello studio, durante le quali l’addetto stampa di Sinatra non mi mollò un secondo, nemmeno quando andavo al bagno, ero in grado di ricordare i dettagli precisi di quello che avevo visto e sentito durante la registrazione; e in albergo scrissi:

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Frank finalmente arriva sul palco, con indosso un pullover a collo alto, e anche se sono lontano mi sembra abbia la faccia pallida e gli occhi umidi. Si schiarisce la gola due o tre volte, poi i musicisti attaccano “ Don’t Worry about Me”. Frank canta l’intera canzone — una prova prima della registrazione — e la sua voce mi sembra buona, e si vede che sembra buona anche a lui perché dopo la prova vuole subito fare la registrazione. Alza lo sguardo verso il regista, Dwight Hemion, che sta seduto nella cabina di controllo trasparente sopra il palco, e strilla: « Perché non registriamo questa meraviglia? » . Qualcuno ride in sottofondo e Frank rimane lì a battere il piede, aspettando una risposta.

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« Perché non registriamo questa meraviglia? » , ripete Sinatra a voce più alta.

Forse Hemion ha l’interruttore spento, ed è difficile vederlo in faccia per via del riflesso dei riflettori contro il vetro della cabina. Ma ormai Sinatra si tira e si storce il pullover giallo e urla a Hemion: « Perché non ci mettiamo cravatta e soprabito e registriamo questa… » .

« Ok, Frank » , interviene calmo Hemion, apparentemente inconsapevole dell’irritazione di Sinatra, « ti dispiacerebbe tornare su… » .

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« Sì, mi dispiacerebbe! » , scatta Sinatra.

 

(...) Alla fine Hemion riesce a calmare Sinatra, in tempo per registrare con successo la prima canzone e qualcun’altra, ma la voce di Sinatra diventa sempre più stridula man mano che lo spettacolo va avanti, e in due occasioni si incrina completamente: la cosa angoscia a tal punto il cantante che in un momento di rabbia decide di annullare tutta la sessione di quel giorno. « Lasciamo perdere, finiamola qua! State sprecando il vostro tempo. Quello che c’è lì » , continua indicando l’immagine di se stesso sullo schermo televisivo mentre canta, « è un uomo con il raffreddore » . 

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In auto, mentre torniamo in albergo, dentro di me penso: per quanto ancora l’Esquire mi coprirà le spese? Alla fine di questa settimana avrò superato i tremila dollari, non sono ancora riuscito a parlare con Sinatra e andando avanti di questo passo forse non ci riuscirò mai…

 

Prima di andare a letto, quella sera, telefonai a Harold Hayes a New York, lo aggiornai su tutto quello che stava succedendo e non succedendo e gli espressi le mie perplessità riguardo al lievitare delle spese.

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«Se ti sembra che stai tirando fuori qualcosa, non stare a preoccuparti delle spese», mi disse lui. «Stai tirando fuori qualcosa?».

«Sto tirando fuori qualcosa», dissi io, «anche se non so esattamente cosa».

«E allora resta lì finché non l’hai scoperto».

 

Rimasi altre tre settimane e il conto delle spese arrivò quasi a cinquemila dollari, poi tornai a New York e mi presi altre sei settimane per organizzare e scrivere un articolo di cinquantacinque pagine ricavato in gran parte da duecento pagine di appunti che contenevano interviste a più di cento persone e descrivevano Sinatra in posti come un bar a Beverly Hills (dove era stato coinvolto in una rissa), un casinò a Las Vegas (dove aveva perso un piccolo patrimonio a blackjack) e lo studio della Nbc a Burbank (dove, una volta rimessosi dal raffreddore, aveva di nuovo registrato lo spettacolo e aveva cantato magnificamente).

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La redazione dell’Esquire intitolò il pezzo: Frank Sinatra ha il raffreddore e fu pubblicato sul numero dell’aprile 1966. Non ebbi mai l’opportunità di parlare a tu per tu con Frank Sinatra, ma forse è proprio questo uno dei punti di forza dell’articolo. Quello che avrebbe potuto dire o che avrebbe detto (essendo uno dei personaggi pubblici più protetti) lo avrebbe svelato meglio di uno scrittore attento che lo guardava in azione, in situazioni stressanti, orecchiando e aggirandosi a bordo campo?

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( Traduzione di Fabio Galimberti) Da Frank Sinatra has a Cold, Taschen 2015

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