RIUSCIRÀ SALVINI A RITROVARE LA FORTUNA POLITICA MISTERIOSAMENTE SCOMPARSA? PER NON PERDERE LA…
Andrea Laffranchi e Michela Proietti per Sette – Corriere della Sera
Per la copertina del singolo Ninna Nanna, aveva scelto una foto d’autore in cui riposava sulle ginocchia della madre. «C’è molto di vero in quella immagine, io e lei abbiamo dormito nella stessa stanza, uno di fianco all’altra, fino allo scorso anno. Solo da quando ho comperato la casa abbiamo due stanze diverse: ma non c’era disagio in quella situazione, anzi, era molto intima. Eravamo due compagni di stanza felici, non ci disturbavamo se rientravamo tardi o uscivamo presto, siamo persone che non si lamentano per i rumori, per la musica o la televisione accesa».
Ghali Amdouni, per tutti Ghali, 26 anni, nato da genitori tunisini e cresciuto nell’hinterland milanese, tra una settimana uscirà con il suo nuovo album, presentato in veste di superospite a Sanremo vestito Dior («per me la moda è un linguaggio»), che ha un nome non casuale: DNA. «Non poteva chiamarsi diversamente, perché per la prima volta tiro fuori me stesso in modo profondo.
Ancora di più si capisce quali sono le miei radici, quelle italiane e quelle arabe, e i viaggi fatti in questi mesi: scendiamo in Africa e poi saliamo in Nord Europa, verso quella musica con la cassa dritta da ballare che ascoltavo quando avevo 13 anni. E per la prima volta c’è una canzone d’amore scritta per una donna che non sia mia madre: per me amare è importantissimo».
A proposito di Dna e origini: da dove viene Ghali?
«Da una storia di immigrazione abbastanza classica: sono cresciuto nella periferia milanese da solo con mia madre, perché mio padre era in prigione. E siccome lui non c’era, le regole in casa le stabiliva lei. Ce n’erano parecchie, era severa, ma nonostante questo non riuscivo ad andare bene a scuola: di questo mia madre soffriva molto».
Un ricordo della scuola?
«Lei non è stata uno di quei genitori che se ne fregano: veniva a parlare con gli insegnanti e li ascoltava attentissima, loro iniziavano ogni volta a dire che c’erano problemi e lei cominciava a piangere durante i colloqui. Mi dava anche qualche schiaffo in loro presenza. Tutte le volte finiva così e io pensavo: ma perché questi qui non trovano un modo meno duro per parlare di me, lo sanno che mamma ci sta male. Davvero, non capivo».
Pensava che gli insegnanti fossero ingiusti?
«Sognavo una scuola diversa, in cui gli insegnanti non impartivano le stesse nozioni a tutti: desideravo che scolpissero su ogni alunno una lezione su misura. Oggi se passo un paio di giorni con il mio nipotino so esattamente cosa può attrarlo e motivarlo: mancava l’ascolto».
Una punizione esemplare?
«Dopo l’ennesimo colloquio andato male, mia madre mi ha proibito di uscire di casa per una settimana: mi ricordo questi pomeriggi di sole forte e io affacciato per ore alla finestra a parlare con i miei amici. Ecco, della mia infanzia ricordo tanto sole, la strada, le ginocchia sbucciate e i muretti da scavalcare per recuperare il pallone».
In Turbococco , uno dei brani che ha anticipato l’album, canta “tu che facevi tanto il bullo ora dove sei?”. Ha mai vissuto un’esperienza di bullismo?
«Credo che tutti noi ci siamo passati anche senza accorgercene, è un incrocio inevitabile nella vita di un essere umano: è come nella giungla, lo devi attraversare per crescere. Non sono mai stato bullo e non sono mai stato vittima: conoscevo dei bulli, questo sì, e provavo tanta pena per loro. Volevano essere protagonisti in un momento in cui non c’era bisogno di esserlo: stavamo crescendo insieme, che fretta c’era di sgomitare. Poi si sono autodissolti».
Oggi i bulli sono anche gli haters del web. A volte su Instagram criticano il suo modo di vestirsi, definito troppo eccentrico.
«Provo un forte senso di dispiacere quando leggo quei commenti. Mi domando: come fanno a capire quella mia rima se non riescono ad apprezzare questo vestito?».
Risponde a tono?
«No però clicco sul loro profilo e cerco di capire chi sono queste persone: vedo i loro interessi e capisco che siamo diversi. Oggi il profilo Instagram è una biografia: dice subito chi sei e chi vorresti essere. Mi rendo conto in quel momento di essere molto distante da chi mi critica: la mia moda, come la mia musica, non è mai stata una cosa facile da digerire».
Non le interessa piacere a tutti?
«Comprendo che chi è cresciuto in un contesto tradizionale e senza contaminazioni possa avere delle resistenze: in Italia abbiamo cominciato a mischiarci adesso. Quando penso a chi mi attacca mi vengono in mente quelle tribù dell’Amazzonia che vedono un drone volare e cominciano a scagliare le frecce in cielo».
Quando è nata la sua passione per la moda?
«In casa siamo sempre stati fissati con la moda e mia madre ci teneva molto che io fossi sempre impeccabile: quando ero piccolo gli immigrati venivano visti in un certo modo, essere in ordine era una garanzia in più per essere integrati. Mi ricordo che mi cambiava anche più volte al giorno: la mia famiglia non aveva titoli di studio e la mentalità era quella del presentarsi bene, anche se i soldi in casa scarseggiavano».
Si è mai lamentato di come sua madre vestiva?
«No no, mai, casomai erano gli altri che avevano da ridire. Una volta gli insegnanti l’hanno convocata per chiederle come mai io indossavo capi così lussuosi. Pensavano probabilmente che ci fosse qualcosa di losco dietro. Ho sempre amato lo stile di mia madre e il suo modo di abbinare le cose: spesso ci scambiamo gli abiti, indosso i suoi maglioni, i cappelli e gli occhiali. C’è una tuta Jordan in velluto degli anni Novanta che porto sempre».
Ha pubblicato lo scambio di messaggi WhatsApp in cui dice a sua madre di smettere di lavorare e le chiede di occuparsi a tempo pieno di lei.
«Far smettere di far lavorare i propri genitori e prendersene cura è il sogno di tutti, è una fortuna. Appena ho capito di avere la forza economica per poterlo fare ho detto basta: ha sempre lavorato troppo, qualche volta faceva anche quattro mestieri insieme. Ora bisognerà capire se è più difficile stare vicino a me o continuare con il lavoro che faceva prima!».
“Quando mi dicon vai a casa, rispondo e dico son qua” cantava di Cara Italia ... Cosa è cambiato da allora?
«Che oggi mi sento ancora più a casa, in Italia e nella mia Milano. Ho girato ovunque con la mia musica, questa volta mi piacerebbe che gli altri venissero loro da me: il tour sarà solo di tre date, tutte al Fabrique».
Per quella canzone e per la sua storia è stato tirato dentro al dibattito politico.... Che ne pensa?
«Ho il mio punto di vista, il mio modo di parlare di politica ingenuo e umano. Non sono cresciuto in una famiglia dove a tavola si parlava di politica. In casa mia, come in tutto il quartiere, la tv era più grande della libreria. Bella questa, quasi quasi la tengo via per una canzone...».
Molti suoi coetanei, anche artisti, se la cavano con un « non me ne frega nulla della politica».
«Il problema allora non era dove finivano i nostri soldi, era come arrivare a fine mese e pagare l’affitto. Non ero io a non voler parlare di politica, ma la politica che non arrivava a noi e ai nostri problemi. Uscito da quella bolla ho iniziato a fare ragionamenti diversi. Ma a modo mio».
Come in Jennifer, una delle nuove canzoni, in cui ripropone la trama di Indovina chi viene a cena: la famiglia di lei che non accetta lui perché in qualche modo diverso dalle loro origini.
«E ci sarà un artista di origini algerine sbarcato in Sicilia da ragazzino e arrivato poi in Francia».
Salvini, e non sarebbe la prima volta che parla di lei, avrà da ridire?
«Quell’artista sta portando qualcosa di bello sia con la musica che con dei progetti sociali di aggregazione. Non vedo nulla a cui potersi aggrappare per criticarlo».
Anche le rime di Combo parlano di Oceano e di qualcuno rispedito in Africa...
«Se questo album fosse uscito prima, una canzone come Combo avrebbe potuto essere la colonna sonora perfetta per Tolo Tolo. L’ho visto il primo giorno che è uscito nelle sale. L’ho trovato bellissimo: una storia semplice e romanzata per far capir il percorso di queste persone. Un film che accontenta tutti: il razzista che pensa che Checco sia serio quando usa la sua ironia intelligente. E tutti gli altri che pensano come sia ridicolo essere razzisti».
Non ha paura di perdere consensi?
«All’inizio non avevo nulla da perdere quindi ne parlavo. Adesso ancor più di prima: ho i miei soldi, una squadra che lavora per me, mamma al mio fianco, una casa mia, una grandissima figa che mi ama e mi vuole bene anche se domani la mia carriera finisce. Cosa potrebbe togliermi dire la mia... io manco mi aspettavo di comperarmi una casa».
A lei è mai capitata una situazione come quella della canzone?
«Con il mio primo amore. Avevo 16 anni e i genitori di lei, mamma bionda e occhi azzurri, erano una coppia di sordomuti. All’inizio disapprovavano la nostra storia, poi quando mi hanno conosciuto hanno cambiato idea. Mi spiaceva non potergli far sentire la mia musica e per fargli capire certe cose di me stampavo i testi delle mie canzoni».
Barcellona è una canzone d’amore. Che fa, abbandona il rap?
«Ho ancora strofe rap che mandano a casa tutti gli altri, ma durante la scrittura del disco questa volta mi è uscito anche altro. Non avevo mai scritto una canzone d’amore prima di questa, non di amore verso mia madre, ma verso una donna intendo. A un certo punto ho anche pensato a un duetto, ma non c’era più tempo, ho fatto tutto all’ultimo minuto, perché “funziono” ancora come a scuola: andavo male tutto l’anno ma l’ultimo mese studiavo e riuscivo a cavarmela. Credo sia l’ansia da prestazione che mi riduce a fare tutto all’ultimo: è un prendere la rincorsa».
I testi del rap sono spesso sotto accusa per i riferimenti a droga, soldi e atteggiamenti machisti...
«Bisognerebbe anche vedere da chi arrivano le polemiche per capire se vale la penna affrontarle. Da bambino giocavo con GTA, ma non per questo andavo poi a rubare macchine e sparare. Ascoltavo gli Uomini di Mare dove c’era Fabri Fibra: sapevo che certe cose che dicevano non si fanno. Ma l’arte non si può censurare».
Ghali a Sanremo con Fiorello e Amadeus mascherato (foto Ansa)
Cos’era Sanremo prima di andarci?
«Mai visto. Come non ho mai visto X Factor perché non avevamo Sky. Seguivo Amici, la De Filippi era per noi la tv italiana e quello mi sembrava il posto per realizzare i sogni».
Anche quelli di un rapper?
«A 17 anni ero in una specie di boyband rap, i Troupe d’Elite. Avevamo un contratto con la Sony, ma le cose andarono male e il nostro album venne congelato. Provammo con Amici ma non passammo il provino. Peccato perché ogni tanto ascolto ancora quel brano... funzionava. Per la delusione ho smesso con la musica per un paio d’anni. Poi YouTube mi ha fatto capire che lì funzionava la meritocrazia e sono ripartito».
Adesso che è arrivato il successo, si sente invidiato?
«Chi mi invidia lo fa perché vede solo il mio privilegio presente. Ma quelli che conoscono il mio percorso dall’inizio non mi invidiano: si sentono vincitori insieme a me».
Lo sa di essere un sex symbol?
«Non credo di esserlo, però ho capito che questo è il mio momento».
E chi erano per lei i sex symbol da copiare nell’adolescenza?
«Anzitutto Michael Jackson, che è anche il mio modello musicale. Poi Van Damme, Pacino, De Niro, Stallone e Travolta»».
Van Damme è ben diverso da Al Pacino...
«Mi sento simile a lui: le prendeva per tutto il film e alla fine si svegliava».
CARTA D’IDENTITÀ
La vita — Ghali, pseudonimo di Ghali Amdouni, è un rapper italiano: è nato il 21 maggio del 1993 da genitori tunisini ed è cresciuto a Baggio, quartiere della periferia milanese. Nel 2011 fonda il gruppo «Troupe D’Elite», ma la popolarità arriva con una serie di brani postati su YouTube e che vengono poi raccolti nell’album Lunga vita a Sto
La carriera — Il singolo di debutto Ninna nanna, uscito il 14 ottobre 2016 su Spotify, stabilisce il record del più alto numero di ascolti nel primo giorno in streaming e raggiunge la vetta della top singoli, ottenendo il triplo disco di platino dalla FIMI per le oltre 150.000 copie vendute. Il secondo singolo Pizza kebab è stato certificato disco d’oro dalla FIMI. Il nuovo album DNA uscirà il prossimo 20 febbraio.
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