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IL CINEMA DEI GIUSTI - L’ITALIA CRAXIANA, L’AMOR FOU E UNA SCENA EROTICA DI MASTURBAZIONE CON UNA PESCA MATURA: ARRIVA A BERLINO L’UNICO FILM ITALIANO, “CALL ME BE YOUR NAME” DI LUCA GUADAGNINO, ED E’ TRIONFO DI CRITICHE E DICHIARAZIONI D’AMORE - ORA GUADAGNINO SI DEDICA AL REMAKE DI SUSPIRIA: “UN FILM CHE VOLEVO FARE DA QUANDO LO VIDI A 13 ANNI. UNO DI QUEGLI UPPERCUT EMOTIVI CHE SOLO DARIO ARGENTO RIESCE A DARE”

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Marco Giusti per Dagospia

 

Berlino 2017. Forte della presentazione al Sundance, dove è stato accolto come il miglior film del Festival, definito “a gay masterpiece”, “a queer classic”, stimato da Rotten Tomatoes con un 100% da parte della critica americana, arriva a Berlino, fuori competizione, Call Me By Your Name di Luca Guadagnino. Ed è trionfo di critiche e di dichiarazioni d’amore su twitter anche qui.

 

Non è solo l’unico film italiano presente a Berlino, oltre che al Sundance, ma anche una sorta di piccolo miracolo di grazia e di intelligenza. Doti sempre più rare quando si parla di nostro cinema, anche se, in questo caso, è difficile, purtroppo, definire come italiano questo film, forse il migliore che ci abbia finora dato Guadagnino.

 

Parlato in tre lingue, girato in Lombardia, tra Crema, Sirmione e Clusone, con ambientazione per noi mai viste, pensato per un pubblico, assolutamente internazionale, che non è certo il nostro, Call Me By Your Name, tratto dal romanzo omonimo di culto del 2007 di André Aciman, scritto dal regista assieme a James Ivory, che doveva dirigerlo in un primo tempo, e al suo montatore Walter Fasano, è qualcosa che si muove e gira attorno al nostro passato, da Roberto Rossellini a Bernardo Bertolucci, alla nostra cultura più profonda, anche cinematografica, per poi allontanarsi del tutto dai nostri modelli cinematografici. E smuove, nel profondo, una cultura cinematografica che da anni non esiste più da noi.

 

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Del resto, da noi lo vedremo solo tra un anno, dopo l’uscita autunnale americana, visto che Sony Classic, che lo distribuirà in tutto il mondo, ha deciso di lanciarlo per gli Oscar 2018. Forte di una fotografia meravigliosa di Sayombhu Mukdeeprom, il direttore della fotografia di Lo zio Boonme di Apichatpong Weerasethakul, e del remake di Suspiria, che Guadagnino ha già praticamente finito, Call Me By Your Name è una sorta di racconto morale rohmeriano, ambientato nell’Italia craxiana del 1983, dove un ragazzino ebreo-americano di 17 anni, Elio Perlman, interpretato da uno strepitoso Timothée Chamalat (Interstellar), scopre il sesso e la propria identità sessuale.

 

Prima perdendo la verginità con la sua amica del cuore Marzia, Esther Garrel, poi innamorandosi, corrisposto, di Oliver, Arnie Hammer (The Lone Ranger, Mine), bel ventiquattrenne americano che lavora col padre studioso di archelogia, Michael Stuhlbargh.

 

Nell’arco di 130 minuti, in una calda estate lombarda di un tempo per noi ormai antico, segnato dalla fine degli anni di piombo e l’esplosione della tv più scatenata, seguiamo la testa e il cuore impazzito di Elio, un ragazzino che combatte con i propri sentimenti contraddittori e le proprie paure, sempre in bicicletta come per correre verso un futuro che non conosce, ma cullato sia dal padre americano, che dalla madre francese, la grande Amira Cesar, mentre dal Lago di Garda vengono fuori, rossellinianamente, statue e memorie del passato.

 

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Elio, nella sua estate selvaggia, irrequieto come la Sandrine Bonnaire di A nos amours di Maurice Pialat, scopre contemporaneamente amore e paura, felicità e dolore, aiutato però dall’amorevole abbraccio dei genitori. Abbraccio che non riuscirà a farlo soffrire di meno, ma lo aiuterà a crescere.

 

Miracolosamente, Luca Guadagnino riesce qui a combinare tutti gli elementi che ha messo sul piatto, il romanzo di Aciman, un cast poliglotta, le musiche d’epoca e quelle nuove e molto alla moda di Sufjan Stevens, il romanzo di formazione, la post-nouvelle vague e il bertoluccismo, il 1983 e un perfezionismo estremo nella ricostruzione d’epoca, l’amore per il cinema italiano che non esiste più e il desiderio di far parte comunque di una scuola ormai sepolta sotto il lago come le statue del suo professor Perlman.

 

Anche se tutto questo desiderio di voler riprendere la linea bertolucciana dei primi anni ’80, ci ricorda i tanti tentativi sbagliati di allora, penso ai film di Gianni Amico, Marco Tullio Giordana, in un cinema che sembrava irriso e superato dai film di Nanni Moretti. Per noi, e forse non solo per noi, non è possibile pensarlo e limitarlo solo come un gay masterpiece, perché sono troppi i riferimenti messi sotto i nostri occhi e le trame che il regista ci propone.

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Da Gelli-Craxi-Grillo a Pialat. La stessa costruzione narrativa è operistica, come nei migliori film di Bertolucci e perfino l’uso di Battiato nella scena clamorosa della pesca deflorata è ironico. Guadagnino riesce a entrare e uscire come vuole dalla sua storia e dal suo 1983,  ma anche a farci sentire profondamente perfino la crescita del suo protagonista passando dall’estate all’inverno. Nessuno dei film era così compatto, riuscito e al tempo stesso. Quello che ci riporta non è solo un lontano passato, anche cinematografico, con tutti i suoi dibattiti critici, è anche l’impossibilità di riviverlo. E l’addio alla giovinezza del protagonista sembra coincidere tristemente con l’addio a quello che è stato il nostro cinema più grande per abbracciarne uno più civile e internazionale.

 

 

 

2. CALL ME BE YOUR NAME

 

Alessandra Mammì per 'D - La Repubblica'

 

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E’ tratto da un romanzo di culto di Andrè Aciman che vinse il massimo premio letterario su temi LGBT. Di quel romanzo ha mantenuto gran parte della trama e  identico titolo “ Call me by your name”(“Chiamami con il tuo nome”). Libro e film ci raccontano dell’innamoramento di un giovane più che benestante ragazzo ebreo (17enne imprevedibile e geniale) per uno studente 24enne di bell’aspetto che arriva ospite nella villa estiva dei genitori.

 

E c’è pure una sconcertante scena erotica di masturbazione con una pesca matura che diventerà iconica. Eppure, per il regista Luca Guadagnino questo che è stato l’unico titolo italiano al Sundance film festival ed evento al festival di Berlino,  “non è affatto un film gay”.

 

Nonostante le scene di seduzione e di amour fou, di sesso e di passione, di tensione e desiderio fra i due giovani uomini, tanta è la determinazione con cui  il regista difende la sua tesi che alla fine persino convince. E si finisce per concordare con  Guadagnino che  “qui si racconta di un ragazzo che in un’estate diventa uomo. Omosessuale o bisessuale poco importa. Perché se siamo davvero onesti bisogna dire che per ognuno di noi c’è stato un momento in cui il desiderio fu così ampio e aperto da poter abbracciare qualsiasi cosa e qualsiasi creatura”.

 

E’ l’opinione anche del grande regista James Ivory che da molto tempo accarezzava l’idea di portare sugli schermi questa storia e che ha lavorato al fianco del Nostro come amico, sceneggiatore, mentore e coproduttore. Anche Guadagnino qui è anche produttore. Così come produttore lo è per il remake di  un cult movie assoluto come “Suspiria”, ora  in corso di lavorazione e già pronto  nel 2018 a diventare il “caso” che farà discutere i fan club di Dario Argento e tutti gli aficionados dell’horror.

 

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E mentre nella sua bella casa di Milano, promuove un film, ne finisce un altro e si dedica anche alla produzione di interior design ( «è una nuova attività che mi sta divertendo molto») Luca Guadagnino, trova persino il tempo per questa conversazione sul cinema e sulla vita, che per lui sono la stessa cosa.

 

Produttore e regista. Ad ogni suo film la vediamo ricoprire entrambi i ruoli… la produzione è la sua prima scelta?

Lo è ! “Call me by your name” era un progetto di Ivory e io volevo solamente produrlo ma è impossibile trovare finanziatori per un regista della sua età, sia pure un maestro. Cercai anche di proporlo ad altri colleghi: Sam Taylor Wood, Ferzan Ozpetek, lo stilista Thom Browne fino  a  Gabriele Muccino ma tutti alla fine mi dicevano: “ Luca, perché non lo fai tu? E’ perfetto per te”. Alla fine mi hanno convinto.

 

Perché non  ha pensato subito a farlo lei?

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Perché son stufo di essere schiacciato in questa immagine e in queste critiche , soprattutto italiane, che mi accusano di fare solo film su bella gente ricca, sofisticata, colta, con case fantastiche … Comunque son contento di averlo fatto a modo mio. Essere produttore è una garanzia di controllo.

 

Lei soffre di ansia di controllo?

Altro che ansia!. La mancanza di controllo mi getta in una forma di paranoia.  Vedo ovunque complotti alle mie spalle. Colpa del trauma ai tempi di “Melissa P”, l’unico mio film di successo in Italia  che incassò ben sette milioni al botteghino nel 2005, ma dal mio punto di vista  fu un fallimento, un collasso di idee a cui tenevo molto e che gli executive della Sony mi bocciavano una dopo l’altra: dall’incalzante colonna sonora pop, alle scene più radicali. Io cercavo una mappa emotiva di quella generazione, loro volevano un teen movie. Da allora mi son detto: “Voglio il controllo”.

 

E controllo è anche la spasmodica cura dei dettagli? “Call me by your name” datato al 1981 è quasi un film in costume, punteggiato da coevi poster del Salone del Mobile o da frammenti di tv con Beppe Grillo che prende in giro Craxi. Per non palare di magliette o lampade d’epoca…

Avere un’attenzione millimetrica e scrupolosa e metterla in scena mi solleva da molto stress. Forse è un retaggio piccolo borghese, ma sono cresciuto con un’idea di cinema che non è solo pensiero ma anche artigianato. Mi fa soffrire la sciatteria, è un peccato imperdonabile che macchia quasi tutto il cinema italiano. Non voglio far polemica, ma tolte poche punte acuminate come Alice Rohrwacher, Michelangelo Frammartino o Stefano Mordini,  i cineasti italiani e le loro produzioni sono tutti accomunati dal baldanzoso e felice pressapochismo che è quasi un loro marchio di fabbrica.

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Menomale che non voleva far polemica…

Allora diciamo che forse è un mio limite non riuscire ad apprezzare questa caratteristica che invece guardo con curiosità in altre cinematografie come ad esempio i film egiziani anni Novanta.  Ma la mia idea di cinema è legata a modelli come “La Luna”, “Il Conformista” o “L’Ultimo Imperatore”  dove si armonizzano tanti livelli di riflessione: storia, psicanalisi rapporti fra le generazione, uniti a una scrupolosa attenzione alla messa in scena.

 

Ma son tutti film di Bernardo Bertolucci!

Io venero Bertolucci. Ogni mio film è un omaggio al suo cinema. Amo tutti i suoi film perché non è mai mediocre, neanche nei suoi fallimenti. E’ un immenso costruttore di immaginario e di icone. Persino il burro con lui diventa un’icona. Chiedo sempre a Bernardo di essere il primo a vedere ogni mio film.

 

E Gabriele Muccino?  Lo ha appena citato come uno dei candidati per girare “Call me by your name”

Muccino ha una buona esperienza artigianale che si è costruito nel cinema americano e poi  nelle sue debolezze, nella misoginia dei suoi film e nella sua incapacità di manovrare le scene di sesso vedevo un punto di forza.

 

Le  sue scene di sesso e seduzione sono magistrali e spesso ambientate in una solare natura. Sempre estiva, però.

L’estate è una stagione di promesse, l’inverno invece di attesa. E poi i corpi mi piacciono e d’estate si vedono meglio. Ma “Suspiria” sarà tutta invernale.

 

La sua “Suspiria” sarà fedele all’originale?

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Sarà un film femminile e femminista costruito dopo lunghi colloqui con donne straordinarie studiose e filosofe come Luisa Muraro, Ida Dominijanni e Lea Vergine. Un film sulla madre terribile, sulle streghe e su body artist  come Francesca Woodman, Ana Mendieta, Judy Chicaco , Gina Pane con il perturbante emotivo e affettivo delle loro opere.

 

Un film che volevo fare da quando lo vidi. Avevo 13 anni e rimasi sconvolto. Fu uno choc formativo, uno di quegli uppercut emotivi che solo Dario Argento riesce a dare. Ho ancora quadernino in cui disegnavo le finte locandine della mia futura “Suspiria”

 

E “Call me by your name” invece? 

E’ un film sull’identità, sulla ricerca di se stessi, sulla libertà. E mi piacerebbe fosse  considerato un film politico, perché l’adesione al desiderio è sempre politica.

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