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Marco Giusti per Dagospia
Cannes. Secondo dei film italiani in concorso alla Quinzaine des Realisateurs La pazza gioia di Paolo Virzi. E’ un dramma, ma si ride anche molto. “Gioia e dolore hanno un confine incerto”, è la giusta citazione deandreiana che ha fatto Paolo Virzì. Ma va detto che anche la pazzia e la non pazzia di questo La pazza gioia che ha scritto assieme a Francesca Archibugi e che ha diretto con un occhio d’amore rivolto alle sue protagoniste Micaela Ramazzotti e Valeria Bruni Tedeschi, hanno dei confini incerti.
Al punto che ci pare che la pazzia (o la non pazzia) tocchi un po’ tutti i personaggi femminili del film, non solo i malati ospitati più che rinchiusi a Villa Biondi. Mentre i personaggi maschili sembrano colpiti come da un fulmine di indifferenza, o molli e flaccidi, come l’ex marito di Beatrice Morandini Valdirana, la Bruni Tedeschi, o il padre cantante fallito di Donatella Morelli, la Ramazzotti, o machi e cattivi come il perfido amante di Beatrice, Bobo Rondelli, o quello di Donatella, orrendo maschio viareggino da discoteca.
Il viaggio che fanno prima di tutti Virzì e Archibugi, è quindi quello all’interno della pazzia femminile. La pazzia della scatenata Beatrice, che non si cheta mai (“sta un po’ zittina, questa parla anche quando dorme!”), orfana del berlusconismo e di una joie de vivre del quel periodo che l’ha resa una specie di indomita Blanche du Bois pronta per le barche da 60 metri di Previti e Dotti e le feste eleganti dell’ex Presidente.
E la pazzia della più giovane Donatella, cubista da discoteca viareggina (ricordate il Chiticaca d’Orbetello?), messa incinta dal quello stronzo del gestore e poi abbandonata. Così, con una mossa sbagliata, ha perso il figlio, finito in affidamento, e ha perso il senno, visto che è rinchiusa in una cupa depressione e in un preoccupante mutismo.
Ma sono pazze anche le loro mamme, Anna Galiena, mamma di Donatella-Micaela, che cura un vecchio in fin di morte e pensa che prima o poi tirerà le cuia, e Marisa Borini, mamma (anche vera) di Beatrice-Valeria, che affitta la sua villa per il cinema (il film nel film è diretto dalla Archibugi e interpretato da Jasmine Trinca). E circola la pazzia anche tra le malate e le inferniere, al punto che spesso non si riescono bene a distinguere le une dalle altre. Tutto il primo atto del film, costruito un po’ operisticamente, vede Beatrice cercare di entrare in amicizia con Micaela, penetrare un po’ nel suo mondo, travolgerla con la sua parlantina da femmina folle.
E va detto che il lavoro che fanno Virzì e Archibugi sui dialoghi e sul personaggio di Beatrice, unito alla sua recitazione nevrotica spinta al massimo, è qualcosa di impressionante nel panorama del cinema italiano. Anche perché tocca nel profondo il ventennio berlusconiano che nessuno da noi sembra mai voler sul serio affrontare (non siamo degli eroi, si sa, però…). E Virzì, questo gli va dato atto, non si è mai tirato indietro, in nessun film, da battute e osservazioni su quel che si viveva.
Il secondo atto smuove le due ragazze in una specie di fuga verso la gioia alla ricerca non si sa bene di che. La molla, certo, è la ricerca del bambino che è stato tolto a Donatella, ma non si tratta solo di questa. E’ una fuga liberatoria per costruire il rapporto d’amicizia fra le due donne. Una fuga, pur minima e pericolosa, dalla loro follia. Beatrice andrà a trovare il vecchio marito berlusconiano, Donatella cercherà di vedere suo figlio…
Il film si vede con gran divertimento e gran piacere, ha una densità di scrittura e di battute rara, a volte perfino eccessiva, e si vede che si sono tutti molto divertiti a mettere in piedi qualcosa di bello e di diverso legato interamente al mondo femminile. Ovvio che ci sia Pietrangeli nelle scene a Viareggio e ovvio che ci sia molto Scola, cioè molto Scarpelli, con la coppia Archibugi-Virzì, anche se il flashback di Donatella rimanda al celebre finale di Il sorpasso di Risi.
Virzì ha tante qualità, ma non la dote di sintesi di Risi, e anche questo film, sicuramente tra i suoi migliori e che ha grandi chances di piacere anche in Francia (pensiamo solo a quanto è più interessante del film di Dumont), va nella direzione del parlar tanto.
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