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Marco Giusti per Dagospia
Che coattata! Un Re Artù, ma loro lo chiamano Art, pieno di mostri, sirene, serpentoni giganti alla Damien Hirst, rapper, modelle fighe, maestri di kung fu, gladiatori e calciatori. C’è pure la spada de foco! Quando Art, il bisteccone Charlie Hunnam, si ritrova la spada nella roccia, sarà David Beckham a dirgli, come se fosse Totti:
“Co’ du’ mani, la deve prenne co’ du mani!”. Alla fine, anche grazie alla musicona hard rock di Daniel Pemberton, alla cattiveria di Jude Law, alla regia senza regole, trashissima, di Guy Ritchie questo King Arthur: Il potere della spada è pure divertente. Ma non credo si possa dire proprio un film riuscito. Ridateci Camelot, Excalibur.
Solo il King Arthur di Antoine Fuqua con Clive Owen poteva vantare una simile impostazione coattella giovanile. Ma qui è tutto più esagerato. L’idea di Guy Ritchie e dei suoi soci, Joby Harold e Lionel Wigram, anche co-sceneggiatori, è di dar vita a una vera e propria saga di Artù e dei Cavalieri della Tavola Rotonda costruita in sei film. Il primo, King Arthur, appunto, segue il futuro re dalla sua nascita regale, essendo figlio di re Uther, Eric Bana, ucciso a tradimento dal perfido fratello Vortigen, Jude Law, che ne prende il posto, alla sua crescita in una Londra, anzi Londinium, miseranda con tanto di mezzo Colosseo sbriciolato, fino a quando riuscendo a estrarre la spada dalla roccia (almeno questo…) e rivelandosi come il “nato re” si troverà obbligato a sfidare l’usurpatore assieme a un gruppo di fedelissimi da stadio e ad una bella maghetta, la Astrid Bergés-Frisbey di Alaska, inviata da Merlino per aiutarlo.
Guy Ritchie e i suoi sceneggiatori hanno trattato la storia di Re Artù come fosse una specie di superepisodio di Games of Thrones, con tanto di 3D fracassone ottimo per il lancio di frecce, spade, per i serpentoni giganti che fanno cucù, anche se il circuito delle sale Imax non lo ha voluto, e questo penso non sia un bel segno, e anche se l’uscita, prevista già un anno fa, è stata più volte spostata. E nemmeno questo penso sia un gran bel segno.
Qualche problemino, insomma, deve esserci stato, forse perché è un film così stramontato, pieno di effetti speciali, dove le scene d’azione successive vengono già inserite nel racconto di come dovrebbero avvenire. Un espediente divertente la prima volta, ma quasi insopportabile alla terza e quarta volta.
Se Charlie Hunnam, già star di Sons of Anarchy, è un King Arthur giovane e belloccio, un po’ troppo palestrato rispetto ai modelli del passato, diciamo Richard Harris o Nigel Terry, Jude Law è ottimo come cattivissimo zietto Vortigen, che se la fa con delle terribili sirene e sacrifica tutto per il potere, Astrid Bergés-Frisbey porta alla maghetta la sua bella faccia non tradizionale. L’idea di non dare grande spazio a Merlino è interessante, puntando tutto sul suo vice nero Djimon Hounsou, mentre Aidan Gillen, nel ruolo di gran tiratore con l’arco, ci ricorda il successo di Games of Thrones.
Più interessante di Man from the U.N.C.L.E, ma decisamente meno riuscito del suo Sherlock Holmes, il King Arthur di Guy Ritchie è modaiolo e fracassone come la Londra di oggi, pensato per un pubblico internazionale che non cerca nessuna finezza alla John Boorman. Ma l’eccesso di effetti speciali e soprattutto di musica sviluppano anche qualche aspetto di bella vitalità in un’operazione che voleva proprio proporsi come supermoderna rispetto a una grande storia del passato. In sala dall’11 maggio.
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