DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
MAURIZIO CROZZA CONTESTATO A SANREMO
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DAGOREPORT
La madre (Russia) di tutte le marchette è tornata. Insieme all'armata rossa che non russa e ai dirigenti Rai che non dormono e pescano nel fiume dei diritti tv un bel souvenir d'Italie da appaltare ai fratelli sovietici. Mezz'ora agghiacciante. Un reperto trash già immortale. Con Toto Cotugno a cantare nella lingua di Putin, gli inamidati orchestrali di stirpe moscovita in divisa Beresina a bloccare sguardo e mascelle alle sue spalle nella parodia di Ivan Drago e il ridicolo involontario "spiezzato" in due da una performance in bilico tra i film finanziati dall'Istituto di Cultura a Nikita Mikhalkov e la tv di Bassora ai tempi di Saddam.
Neanche Berlusconi, il fantasma evocato a più riprese, il vero protagonista della serata sanremese, tra una Vodka e una Dacia avrebbe osato tanto. E ora, ad Arcore, superato nella profezia: «Sarà una festa dell'Unità » dai rimpianti sventolati davanti al congiunto terrore Littizzetto-Fazio dal sentimentale autore de "L'italiano": «Viaggio tanto nei paesi dell'Est e sento una nostalgia per la vecchia Unione Sovietica», Berlusconi festeggia la più diabolica delle vittorie. Ottenuta agitando il fantasma della rimonta elettorale.
Preoccupando i committenti romani di stanza al Nazareno e gli attori in trasferta ligure. Quelli che non dubitano. Quelli che non sono âorganici' ma-alla maniera di Jannacci-il Pd è dentro di loro, l'appartenenza è una cosa seria e la Crociata contro il barbaro di un lungo ventennio, un genere che offre un altro inatteso giro di giostra.
Fazio, Littizzetto e Crozza salgono a bordo senza cinture. Ripetendo un copione da modernariato veltroniano già macerato da sconfitte e illusioni più friabili dell'immutabilità berlusconiana. Il satrapo sperava nella prevedibilità dello schema. I fazisti non lo hanno tradito. Dottorali. Cupi. Moralisti: «Quante belle signore eleganti qui» dice il Silvio di Crozza: «Anche io faccio le cene eleganti ma qui siete diversi, siete tutti vestiti».
Alimentando con un'assenza più efficace di qualsiasi presenza l'incendio della barricata che intona di preferenza una sola nota, per lucrare su Sanremo a Berlusconi è bastato poco. Portare in campo aperto e stimolare da vecchio mestierante il disco rotto della brigata comica che da tre lustri, con le idee in formalina e la fantasia in cantina, occupa i palinsesti con l'ossessione circolare che come illustra Zeman, uccide anche il talento.
Si augurava che parlassero di lui, il commendator Pompetta. à puntualmente avvenuto. Ha mosso l'esca utilizzando la notizia di giornata: «Crozza non tocchi il Papa». Per non perdere l'abbrivio ha poi minacciato l'obiezione di coscienza al canone della Rai comunista. E infine ha fatto abboccare all'amo la partecipata testimonianza di lotta catodica del pueblo dal contratto a nove zeri.
Al resto, una volta mimetizzati nella terra di mezzo delle claque contrapposte del vecchio Ariston un paio di rapidi peones dotati di fischio e faccia come il culo pronti a scattare durante la sinistra esibizione di Crozza, ha provveduto l'emulazione. Più empatica di qualunque âsuggerimento dalla regia'. In platea non ne potevano più. Il messaggio chiaro, irradiato in 20 milioni di abitazioni, lo spot gratuito, il regalo di Natale fuori tempo massimo a Berlusconi era un grido: «Basta politica». Poi qualche "Vattene via", "Pirla" sparsi, irritazione a macchia di leopardo (per una platea distante dalle prime file spesa di appena 168 euro) e molte urla.
Distonie erroneamente, penosamente addebitate da un Fazio in versione-Claudia Mori: "Grazie al pubblico che ci ha permesso di individuarle" a un paio di comparse prezzolate e che invece somigliavano a chiare spie di qualcosa di spontaneo. Di mai visto. Il manifesto di una saturazione diffusa. Una stanchezza. Una delusione. Il ripudio di un copione già visto e di un brano messo sul piatto troppe volte.
Crozza, l'uomo che avrebbe dovuto salvare il Festival, nei panni di Silvio il gangster. Che scende le scale impomatato, canta un'aria aznavouriana "indimenticable" riscritta da Verdini (capìto la battutona), somiglia forse all'originale e proprio per questo, nella tautologia, non fa ridere mai. Non c'è invenzione, surrealismo, lampo di genio. à tutto telefonato, prevedibile, faticoso: "Faccio Totò o taglio i soldi alla scuola pubblica?". Piovono fischi, Crozza si blocca, è visibilmente sotto choc. Deve intervenire Fazio e anche plasticamente, si sgretola un piccolo mondo antico. Fatto di certezze, presunzioni e pacche sulle spalle.
Nella pause lunghissime e nel calvario della rivolta in diretta si capiva che il fulcro dell'ingranaggio si era rotto. E adesso per ripararlo o ripararsi altrove non c'è più tempo. Per nessuno. Senza rete protettiva ("Ballarò") o pubblici fidati o ammaestrati ("Che tempo che fa") oggi più di ieri, Grillo insegna, si cade. E non si sa dove si finisce. Non è più epoca di fideismi o cambiali al buio. Non è più tempo di bianco o nero.
Nell'indefinitezza cade senza rialzarsi Crozza. Costretto a un doppio, infinito black-out. A due atti sospesi che non si distinguono tra loro. Durante il primo (in un replay del comizio ligure di Celentano all'Ariston), dopo aver mostrato anche al pubblico siberiano gelo, sgomento e sorpresa per la contestazione: «Amici, non è propaganda», Crozza annaspa, cammina sul palco e intimidito, affonda: «Non fate così».
Si rende necessario il salvifico soccorso di Don Fabio: «No ragazzi, così non vale, stiamo calmi sereni e tranquilli. Siamo qui per applaudire uno dei più apprezzati comici italiani, dobbiamo divertirci e non approfittare del festival di Sanremo per farci notare con due urla. Ascoltiamo tutto l'intervento di Maurizio Crozza e poi ognuno dirà la sua» e il comico può riprendere.
Ma tra un sermoncino: «Cosa hanno in comune Sanremo e le elezioni? Chiunque vinca non conta una mazza» e un sillogismo da Transatlantico: «Andremo a votare con un quadro politico totalmente privo di logica. Chiunque governerà lo farà alleandosi con qualcuno che lo ha appena mandato a cagare. Credetemi, siamo ingovernabili» inciampa di nuovo. Deve rientrare Fazio. Il danno è fatto.
Con respiro affannoso, come in trance, comunque âgroggy' come mai prima d'ora, senza più timone per guidare tra gli iceberg, finalmente Crozza scivola su Bersani, Ingroia e Montezemolo truccato dallo scarparo Della Valle. Si smarca dall'incubo. Pare concludere in crescendo. Ma volto, cera e commiato dicono il contrario. Lo applaudono tutti, anche in piedi, ma è tardi. Esce di scena con l'abbraccio di consolazione di Fazio e la netta sensazione del flop epocale.
Per salvare la pelle bastava che la nazionale degli autori democrat capitanata da Michele Serra, una nutritissima pattuglia (Claudio Fasulo, Pietro Galeotti, Massimo Martelli, Francesco Piccolo, Marco Posani) suggerisse a Crozza dopo lo stanco show della Littizzetto su Imu e dintorni di non iniziare la sua estenuante mezz'ora proprio con la demolizione di Berlusconi ma piuttosto di partire con Bersani e finire col Banana. Come non detto.
E ora, inseguita da un collettivo ordine di cattura dell'Interpol, dall'affettuoso desiderio di ospitalità delle galere di Bolzaneto e dalle proteste automatiche del Pdl, la nave sanremese è alla deriva. Al di là dei lautissimi ascolti favoriti dalla concorrenza e dall'indecifrabilità complessiva della nebuolosa chiamata Auditel, si può parlare di disastro concettuale.
Per conquistare gli indecisi al voto, illuminare gli agnostici o recuperare voti alla causa dei buoni, Sanremo, molto più del Santoro di La7, fa rima con Waterloo. Lo dicono le impressioni. Lo certificano frammenti di tv balcanica in prima serata Rai.
Toto Cotugno, ipercinetico, riadatta una fortunata notte di trent'anni fa: "Lasciatemi cantareee, con la chitarra in manooo, lasciatemi cantare sono un italiano". Fazio omaggia Giuseppe Verdi in un incipit da requiem. "Popolare non è necessariamente sinonimo di scarsa qualità " giura Fabione, ma forse mente. Il resto è acre odore di incenso per il funerale di Stato che si rinnova di stagione in stagione da 63 anni.
Senza più bellezze, canzoni e arte (buono il solo Silvestri) bisognerebbe chiudere. Senza soldi o soldati di ventura alla Benigni, che pur nel cabotaggio dell'esibizione a gettone, a Berlusconi sapeva far male, sarebbe opportuno evitare di replicare l'ossidato modello dell'appello calato dall'alto in vista dell'ennesima emergenza democratica. Dell'ennesimo al lupo al lupo travestito da gara canora. Invece si andrà avanti. Senza le stelle, precipitando verso lo stallo di sistema.
Robertaccio costava e i rubli non bastavano. Allora via di risulta e canovaccio consueto, con lo spettro del Mulino Bianco all'orizzonte e il breviario della correttezza civile in rapida declinazione. I gay che con sorriso imbalsamato raccontano la loro esperienza amorosa per cartelli con sottofondo di musica classica (e ti chiedi se per dar voce al matrimonio di contrabbando a New York, c'era proprio bisogno della pseudo poesia del cartellismo alla Dylan-Ginsberg).
I calciatori neri ma "italiani" come Angelo Ogbonna del Torino accolto da un Cotugno gioviale e âspiritoso' «Io tifo per il Milan, lì c'è uno come te, Balotelli» in linea con il loquace Paolo Berlusconi che recentemente, con «affetto», aveva definito Supermario il «negretto preferito di famiglia».
La tutela delle donne che in una notte di febbraio, con le peggiori intenzioni, la gioiosa macchina da guerra del servizio pubblico televisivo e i guru di settore consegnano, insieme a tutto il resto delle macerie, a Silvio. Quello che chiede di mostrare il lato B, domanda alle fanciulle quante volte vengano e dal 1994, godendo con lo stesso collaudato brevetto di ieri, prende italiani e stranieri, avversari e apologeti, per il culo.
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