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Vittorio Zucconi per "la Repubblica"
Aveva 46 anni ed era ancora ben lontano da quel Viale del Tramonto che ha visto precipitare tante vite di uomini e di donne nel mondo di "Tinsel Town", della città spietata di latta e di cartone.
Hoffman era un grande attore vero, non un belloccio o una diva, angosciati dalla corrosione del tempo. Aveva vinto l'Oscar nei panni di Truman Capote nel 2005, aveva lavorato molto e aveva offerte, nel cinema come in teatro, ma nessuna statuetta, nessun contratto, nessun plauso di critica e di pubblico possono mai colmare quella voragine di insicurezza che sta sotto la crosta sottile della fama e li consuma. "Hollywood - diceva una delle sue vittime più luminose, Marilyn Monroe - è la città dove ti danno cinquantamila dollari per un tuo bacio e cinquanta centesimi per la tua anima".
L'overdose, l'abuso di ogni sostanza stupefacente, dell'alcol, del sesso stanno alla città di latta come la silicosi sta a un minatore o lo schianto contro il muretto di Indianapolis a un pilota da corsa, malattie professionali. Tutti sanno, senza mai ammetterlo, che è vero ciò che raccontò Julia Phillips, una famosa produttrice nel suo libro di memorie, You'll never eat lunch in this town again, nessuno ti inviterà mai più a colazione, quando disse che in ogni budget c'è sempre una voce misteriosa per "spese varie" che nasconde la provvista di cocaina, eroina o di "Molly", di ecstasy. Nessuno la invitò mai più a colazione.
Non è neppure possibile compilare un elenco dei caduti per eccessi di ogni genere o di famose star miracolosamente sopravvissute ai propri vizi. Dalla fragile Judy Garland, la ingenua ragazzina di campagna del Mago di Oz, spenta da barbiturici aggiunti a una cirrosi da alcol avanzata, a Michael Jackson, che chiedeva al proprio criminale medico personale iniezioni continue di propofol, il potente anestetico chirurgico per poter dormire, la danza macabra di coloro che noi adoriamo sullo schermo è un party quotidiano. "A Hollywood - rise acre Johnny Carson, per decenni conduttore del talk show più ambito a Los Angeles - se non hai uno psichiatra, pensano che sei pazzo".
Hoffman era entrato e uscito da centri per la disintossicazione e la riabilitazione molte volte, l'ultima pochi mesi or sono quando, pulito e sobrio per pochi giorni, invitò tutti i padri e le madri che lo ammirassero "a volere molto bene ai propri figli", forse ricordando il divorzio fra la madre, cancelliera in un tribunale e il padre, dirigente della Xerox, quando aveva nove anni.
Ma se lui aveva la coscienza della propria dipendenza letale, non sapeva sottrarsene, come James Gandolfini, stroncato a Roma dalla propria ingordigia di tutto. Proprio lui che in una sequenza del film Cogan, nella parte di un killer di mafia ormai incapace di uccidere nella stretta dei propri vizi, aveva ostentato l'indifferenza di chi può bere litri di cocktail e annusare metri di coca.
Tutte le stelle si sentono immortali. Tutte le stelle sanno di essere mortali.
Non c'è, se ascoltiamo la sempre florida industria del gossip e delle malelingue, cittadino di questo villaggio del tutto e del nulla che non abbia qualche cosa da nascondere a noi, al pubblico, a loro stessi, ma certamente non ai colleghi "in the trade", nell'industria.
La paura. Julia Phillips nel suo libro, prima di morire lei stessa degli eccessi che aveva narrato, citò fra i tanti Scorsese e Spielberg, Lucas e Richard Dreyfuss, Goldie Hawn e David Geffen, uno dei creatori della DreamWorks, grande fabbrica di sogni con lieto fine anche per bambini.
Il grande Jack Nicholson non ha mai nascosto il proprio attaccamento alla bottiglia, né avrebbe potuto, essendo facile incontrarlo barcollante. Né avrebbe potuto tacerlo Charlie Sheen, che fece addirittura una spot pubblicitario esibendo la cavigliera elettronica ordinata da giudice dopo ripetute condanne.
Abbiamo visto morire di overdose la stupenda Whitney Houston e abbiamo assistito al calvario autoimposto di un sex symbol come Lindsay Lohan, trascinata di tribunale in tribunale via via più sfatta, ma per ora salvata dall'intervento della giustizia. Abbiamo perduto lo straordinario John Belushi dei Blues Brothers, fulminato da una "speedball" una pera di cocaina ed eroina insieme, e leggemmo di un tenerissimo ragazzo River Phoenix, ucciso dalla droga davanti al fratello a 23 anni, bambino prodigio del cinema dove lavorava da quando aveva 10 anni.
Immensi talenti che forse avrebbero vissuto a lungo nell'oscurità di una cassa di supermercato, sulla cattedra di una scuola elementare, nella cucina di una casa e che sono stati "bruciati" come voleva la definizione di altre generazioni, nella luce del set e nel riflesso della latta.
"Farfalle inchiodate dalla propria fortuna che hanno paura di accettare", disse John Houston prima di morire, lui, ucciso dal vizio di un'altra generazione, come Humphrey Bogart, il fumo. Tutti persuasi che, dietro i baci al vento e i tappeti rossi, lassù nessuno davvero li ami.
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