“CHIARA, TI RICORDI QUANDO HAI AMMESSO A FEDEZ CHE TI SEI SCOPATA ACHILLE LAURO?” - IL “PUPARO” DEL…
1. ADDIO UMBERTO
Antonio Gnoli per ''la Repubblica''
nave di teseo casa editrice elisabetta sgarbi umberto eco buttafuoco
Due o tre cose venivano in mente incontrando Umberto Eco: il whisky, i calembour e il Medioevo. Le prime due appartenevano alla sua natura giocosa e mondana, l' ultima era il frutto di una strepitosa curiosità mentale. Quel mondo remoto, segnato dalla superstizione e dalle nevrosi collettive, lo affascinava. Può stupire la dedizione a quei secoli, ingiustamente definiti bui, in un uomo che non ha mai dubitato della propria natura illuminista.
Una spiegazione si ricava dal rapporto che ebbe con Luigi Pareyson, i cui vasti interessi filosofici spaziavano dalla cultura antica a quella contemporanea. Il professore di Torino individuò in Eco (nato ad Alessandria nel 1932) e in Gianni Vattimo gli allievi più brillanti ai quali affidare le ricerche più ambiziose e remote. A Vattimo fu chiesto di occuparsi di Aristotele, mentre Eco venne indirizzato sull' estetica di Tommaso d' Aquino. Erano allievi mentalmente agili, spregiudicati, ambiziosi. Provenivano dal mondo cattolico. Arrivavano dalla provincia.
Ma si intuì che avrebbero fatto molta strada. Il rapporto con Pareyson fu per Eco fondamentale. Con la libera docenza le loro strade si divisero. Fu solo negli ultimi mesi di vita (Pareyson si spense nel 1991) che avvenne il riavvicinamento: «Compresi che, per quanto forti fossero le divergenze culturali, era pur sempre stato il mio maestro. Se ci fai caso, mi disse, tutti i miei romanzi sono come un Bildungsroman: c' è un giovane che apprende da un legame formativo con un anziano. È la ragione per cui ho fatto il professore e resto in contatto affettuosissimo con tutti i miei studenti».
A quelle parole, pronunciate con una certa nostalgia, mi venne in mente il rapporto tra Guglielmo e Adso ne Il nome della rosa (1980), il romanzo che gli cambiò la vita ma non il modo di pensare. Dopotutto, che cosa fu quel folgorante esordio narrativo se non anche un modo di tornare ai temi filosofici che gli erano più congeniali? Nel romanzo si sforzò di pensare come un uomo medievale.
UMBERTO ECO IN GIRLFRIEND IN A COMA
Immaginò, lasciandosene ammaliare, che l' uomo medievale fosse preda di oscure nevrosi alimentate da un' endemica condizione di angosciosa insicurezza. Per certi versi simile a quella nella quale oggi versiamo. Eco ne immaginò un vertice accattivante nella figura di Guglielmo di Baskerville. C' è da dire che Il nome della rosa ribolle di araldica medievale, di simbologie minacciose, di contese teologiche, di enigmi interpretativi e di immagini mostruose. Da queste ultime Eco si sentiva attratto.
Al punto che la riflessione sulla bellezza - di cui si era a lungo occupato secondo i canoni classici dell' antichità - non lasciava fuori il gusto per il deforme e il difforme. Fu, insomma, consapevole che la cultura medievale - affascinata dal prodigioso ma, al tempo stesso, dal difforme e dall' insolito - aveva fornito le basi a un nuovo modo di percepire la realtà e le sue rappresentazioni. Qualcosa di molto simile immaginò per la nostra contemporaneità, afflitta anch' essa dal disordine e dall' irregolare.
Eco amava mescolare generi letterari ed epoche storiche, padroneggiando con abilità borgesiana l' universo dei libri e i suoi segreti.
Tra le tante cose, fu anche un bibliofilo raffinato e competente. Come pochi seppe giocare con la realtà. Seppe affrontarla nei suoi toni alti e bassi. Nelle sue paradossalità e infingimenti. Pensava che le teorie del falso e del vero non fossero prerogativa del mondo contemporaneo. E non fosse di nostra esclusiva pertinenza culturale la loro indistinzione. Il Medioevo aveva conosciuto la pratica di una verità riconducibile a Dio. Tuttavia, Dio non sempre era presente e in agguato c' erano i demoni pronti a confondere la mente dei logici medievali.
Certo, i processi di falsificazione attuati dal mondo contemporaneo - sia nell' universo politico che in quello mass-mediologico che ben conosceva grazie alla sua esperienza in Rai nei primi anni Cinquanta - toccano solo in minima parte i problemi di fede e di credenza che l' ingenuità medievale aveva posto al centro del proprio universo. E chissà con quale sdegno Tommaso o Agosti- no avrebbero reagito alla messa in discussione del concetto di autenticità. A volte lo scrittore mostrava insofferenza verso chi liquidava i suoi lavori più popolari come il frutto evanescente della postmodernità.
Al contrario, la sua mente era quanto di più moderno si potesse immaginare. Enciclopedica, classificatoria, erudita, paradossale. Giocosa. Fu tra i fondatori del Gruppo 63 insieme a Nanni Balestrini, Oreste Del Buono e Angelo Guglielmi, uno dei rari movimenti di neoavanguardia nell' Italia di quegli anni e poi fondatore del Dams, altro esperimento inconcepibile di trasformare in disciplina accademica arti e materie non allineate. Il tutto senza mai perdere l' ironia. Colse nel riso una qualità esclusivamente umana.
LIBERTA' E GIUSTIZIA UMBERTO ECO - DEBENEDETTI - PISAPIA
Capace di allontanare l' uomo dall' idea di morte. Descrisse Rabelais, che congiunse il mondo medievale con il moderno, come il più straordinario interprete dell' ilarità eversiva. In questo richiamo al mondo medievale Eco rintracciava le radici stesse dell' Europa. Non solo nelle acquisizioni cristiane, non solo nelle mire espansioniste che l' Occidente cominciò a darsi con le Crociate e poi attraverso i primi viaggi; ma anche mediante la riscoperta delle conoscenze filosofiche antiche. Il paradigma medievale fu la stella che orientò il suo cammino. Perfino nei rapporti con Joyce, forse lo scrittore contemporaneo che ha amato più di ogni altro, Eco misurò la vicinanza con il Medioevo.
Umberto Eco Il pendolo di Foucault
La devozione che il grande dublinese ebbe per quei secoli - per Tommaso e la scolastica, come pure per Dante - furono la ragione di un segreto rispecchiamento. Un' idea seminale che lo avrebbe accompagnato per tutto la vita. Tra i grandi meriti di questo intellettuale c' è anche lo straordinario interesse che le sue opere hanno suscitato a livello internazionale. Fu così che l' Italia, quasi d' improvviso, apparve grazie a lui, un paese culturalmente meno asfittico e deprimente. Egli stesso si meravigliò del grande clamore che il suo nome stava producendo. L' ironia lasciò il posto a una sottile preoccupazione.
Come se tutto ciò distogliesse dai veri compiti dello studioso di semiotica e di filosofia che nel corso dei decenni ci ha regalato saggi importanti, su tutte le sue variegate materie di studio: da Opera aperta (1962) ad Apocalittici e integrati (1964); da La struttura assente (1968) a Trattato di semiotica generale (1975); fino alle sue raccolte di articoli, come quel Diario minimo (1963) che contiene due dei suoi scritti più noti al grande pubblico, Fenomenologia di Mike Bongiorno ed Elogio di Franti.
E poi ci sono le tante Bustine di Minerva disseminate, negli anni, sull' Espresso, amatissime dai lettori. E naturalmente i romanzi successivi a Il nome della rosa, come Il pendolo di Foucault (1988), L' isola del giorno prima (1994), Il cimitero di Praga (2010) e l' ultimo, Numero zero, pubblicato nel gennaio dello scorso anno. Ma questa produzione letteraria recente non ha esaurito la vitalità di Eco.
Perché la sua ultima grande avventura è cominciata lo scorso novembre, quando con il direttore editoriale Elisabetta Sgarbi e un folto gruppo di autori italiani e internazionali ha lasciato Bompiani, nel pieno della fusione tra Mondadori e Rcs, per fondare una nuova casa editrice, La Nave di Teseo. Ed è davvero triste che non abbia fatto in tempo a vederla salpare.
2. LE LEZIONI DI SEMIOTICA IN CUI SI INTERPRETAVA TUTTO ANCHE COME MORIRE
Stefano Bartezzaghi per ''La Repubblica''
E poi Umberto mi ha detto che non ho la libido docendi ». Così suona la battuta con cui il protagonista dei Fratelli d' Italia di Alberto Arbasino illustra i propri rapporti, catastrofici, con il mondo dell' università. Quell' Umberto sarà stato sicuramente Eco. Tutto il mondo lo ha conosciuto come scrittore erudito ma avvincente, a partire dal Nome della Rosa, pubblicato nel 1980 (come quasi tutti i suoi libri, da Bompiani).
In realtà era già molto noto, e non solo in Italia, come brillante critico e protagonista delle comunicazioni di massa (televisione, giornali, editoria libraria). Aveva animato polemiche culturali, contribuito a svecchiare il dibattito italiano importando testi e idee provenienti da settori disparati (teoria dell' informazione, linguistica, massmediologia, strutturalismo, cognitivismo, avanguardie letterarie e artistiche); aveva colorato le plumbee pagine della pensosità nazionale con i giochi del suo funambolismo satirico e parodico, dai pastiche all' enigmistica; aveva stabilito una rete intercontinentale di conoscenze e rapporti intellettuali, estesa dal Canada, al Brasile all' attuale Estonia e contribuito a fondare una disciplina tanto rigorosa quanto eclettica: la semiotica.
Tutti sapevano che, tra le altre cose, Eco era anche un professore, titolo che in Italia può apparire quasi formale, come venir chiamato «gentiluomo» («dottore» invece equivale a «buon uomo»). Per Eco era diverso. Solo chi è stato suo studente probabilmente ha percepito quanto contasse la libido docendi, che possedeva - lui sì - in massimo grado. La verità è che Umberto Eco è stato professore prima e molto più di ogni altra cosa. Nella sua bibliografia, fatta di titoli passati in proverbio, il più umile e il più autobiografico (ma anche uno dei più preziosi) è certamente il Come si fa una tesi di laurea, del 1975.
Io l' ho incontrato per la prima volta nel novembre del 1981, all' Università di Bologna. Voci di corridoio insinuavano che si facesse regolarmente sostituire dai suoi assistenti, distratto dal lancio internazionale del Nome della Rosa (che, a un anno dell' uscita, stava passando dallo status di inatteso bestseller alla dimensione allora inedita di megaseller planetario). Ma non era vero niente.
All' università Eco si sentiva come a casa propria. Dentro a quelle mura era un docente e non una star (in quegli anni non ho mai visto nessuno chiedergli di autografare il romanzo): bastava bussare alla sua porta per essere ricevuti e gli studenti venivano trattati come colleghi juniores. Eccolo infatti irrompere nell' aula affollata, dove per anni l' avrei visto fare lezione ogni giovedì, venerdì e sabato, fino a maggio, a volte anche con la febbre. L' anima sabauda non gli consentiva di deflettere. E poi gli piaceva proprio.
Quel primo giorno tracciò una linea orizzontale per tutta la larga lavagna, la divise in segmenti regolari, ognuno un secolo, dal V al XV d.C. Per le restanti due ore avrebbe riempito tre fasce parallele alla linea cronologica, dedicate rispettivamente ai fatti storici, a quelli culturali e alle innovazioni tecnologiche. Il Medioevo era di fronte a noi.
Molti citano un proverbio appunto medievale: « Non oportet studere sed studuisse » , conta aver studiato, non studiare.
Tutte le energie didattiche di Eco sembravano volte in direzione opposta e ancora decenni dopo avrei sentito persone insospettabili dire, dopo una sua conferenza: «Mi ha messo voglia di studiare». Anche a una platea di matricole del Dams, maturate in licei e istituti di chissà quale livello, il suo messaggio arrivava nitido e chiaro: non importa quanto hai studiato sino ad ora, conta che cominci a farlo subito. Dell' Autunno del Medioevo di Johan Huizinga diceva a lezione: «Questo è un libro affascinante, da tenere sul comodino». Chi se lo procurava scopriva che era proprio così: fra docente e studente il patto di fiducia o, meglio, il transfert era attivato; il resto sarebbe venuto da sé.
Umberto Eco autografa il suo libro
In un capannello, prima di far lezione, un giorno si toccò un braccio, fingendo preoccupazione: «Mi fa male qui, sarà l' infarto?». Non lo era, decenni di attività lo aspettavano ancora. Ma da quella volta si è poi notato che della propria morte tendeva a parlare con una certa regolarità.
Non solo i suoi personaggi romanzeschi più autobiografici raramente sopravvivono alla fine del libro. Anche le Sei passeggiate nei boschi narrativi (le sue «Lezioni americane »), finiscono con Eco che pensa alla propria morte mentre in un planetario ammira il cielo stellato del 5 gennaio 1932, la notte della sua nascita. Doveva essere un suo pensiero-brivido: l' appuntamento ineludibile con ciò che non significa nulla, che non può essere interpretato, e soprattutto che non si impara né insegna. Che deplorevole inconveniente, l' Inspiegabile, per il caro Professore che non dimenticheremo...
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