1- TRA I SEGNALATI NELL’INCHIESTA DI NAPOLI SPUNTA ANCHE IL PADRE DI ROBERTO SAVIANO 2- L’AUTORE DI ‘’GOMORRA’’ È ALLE PRESE COI GUAI GIUDIZIARI DEL PADRE, MEDICO SOTTO PROCESSO PER PRESTAZIONI INESISTENTI, RICETTE FASULLE, RIMBORSI NON DOVUTI 3- INTERCETTAZIONE: “HA FATTO LA COMBINE CON I CENTRI MEDICI E MO HA IL FASCICOLO DA ME. I GENITORI DI SAVIANO SI SONO SEPARATI ED IL PADRE E' UN MEZZO IMBROGLIONCELLO" 4- ALCUNE PAGINE DI “GOMORRA” SUL RAPPORTO DISSOCIATISSIMO COL PADRE: “DA DUE ANNI NON CI VEDEVAMO, AVEVAMO VISSUTO NELLA STESSA CITTÀ SENZA MAI INCONTRARCI” 4- “IL GIORNALE”: “IL PAPÀ DI SAVIANO NON RISULTA INDAGATO, FIN QUI HA L’ARIA DI ESSERE SOLO UNO SCHIZZO DI FANGO. CHE PERÒ A CERTI GIUSTIZIALISTI SAREBBE BASTATO PER UN PROCESSO SOMMARIO. SE L’IMPUTATO NON SI CHIAMASSE SAVIANO, OVVIAMENTE”

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1- CAMORRA: INTRECCI IMPRENDITORI-CLAN, SPUNTA NOME PADRE SAVIANO
(AGI)

Tra i segnalati nello scambio di 'favori' per 'amici' diventato sistema tra giudici tributaristi della Commissione tributaria provinciale di Napoli venuto alla luce grazie all'inchiesta che ha portato a 60 provvedimenti cautelari, anche il padre di Roberto Saviano. Il suo nome viene fatto in relazione a un ricorso legato al giudice Corrado Rossi, uno dei giudici arrestati.

In una intercettazione ambientale dell'8 aprile 2009 nella stanza dei segretari delle sezioni II e III e XXXI della Commissione un uomo non identificato e "la signora Manzillo" (Liliana, segretaria della II sezione, ndr.) parlavano del ricorso del padre dello scrittore. "A tal proposito - scrive il gip Alberto Capuano - si puo' notare che accanto al nome di Saviano (e Colella) il giudice Corrado Rossi ha trascritto negli appunti, alla voce ricorsi, la somma di euro 6 mila".

L'uomo dice: "Roberto (verosimilmente Roberto Russo, segretario della XXXI sezione, si legge nella nota del trascrittore del colloquio intercettato,ndr.), ci sta? gli volevo dire che ho il fascicolo del padre di Roberto Saviano". "Ahhh", si limita a dire la Manzillo. "E' raccomandato da Corrado Rossi! perche' il padre di Roberto Saviano vive, anche Roberto Saviano e' originario di Frattamaggiore, il padre di Roberto Saviano e' un medico di base ha fatto la combine con i centri medici, le radiologie e mo ha il fascicolo da me e poi Corrado Rossi mi ha raccontato tutta la storia, i genitori di Roberto Saviano si sono separati ed il padre... E' un mezzo imbroglioncello".

Luigi Saviano ha infatti procedimenti in corso per truffa ai danni dell'Asl per cui lavora come medico.

2 - SCHIZZI DI FANGO SUL PAPÀ DI SAVIANO
Da "il Giornale" - È solo un breve passaggio in una sterminata ordinanza, ma c'è spazio anche per il papà di Roberto Saviano nell'inchiesta di Napoli. C'è un appunto che parla di un ricorso del padre dello scrittore con vicino la cifra «6.000 euro» sugli appunti del giudice Corrado Rossi. E poi un'intercettazione ambientale.

Eccola: «Conversazione 561 (all.481) dell'8 aprile 2009, captata alle ore 10,16, attra­verso l'ambientale installata nella stanza dei segretari di sezioni (2ª - 3ª e 31ª), in uso a Panaro, Manzillo e Russo.

UOMO: Roberto (note del trascrittore: verosimilmente Roberto Russo, segretario della 31ª sezione), ci sta?
LILIANA MANZILLO (segre­taria 3 ª sezione): ...(parola incomprensibile)..
UOMO: ah Roberto, gli volevo dire che ho il fascicolo del padre di Roberto Saviano LILIANA: Ahhhh
UOMO: è raccomandato da Corrado Rossi! perchè il padre di Roberto Saviano vive, anche Roberto Saviano è originario di Frattamaggiore il padre di Saviano è un medico di base ha fatto le combine coi centri medici, le radiologie e mo' ha il fascicolo da me e poi rossi mi ha raccontato tutta la storia. I genitori di Saviano si sono separati ed il padre.. è mezzo imbroglioncello».

Il papà di Saviano non risulta indagato, insomma fin qui ha l'aria di essere solo uno schizzo di fango. Che però a certi giustizialisti sarebbe bastato per un processo sommario. Se l'imputato non si chiamasse Saviano, ovviamente.


3- L'AUTORE DI ‘'GOMORRA'' È ALLE PRESE COI GUAI GIUDIZIARI DEL PADRE, MEDICO SOTTO PROCESSO PER UN STORIA DI PRESTAZIONI INESISTENTI, PRESCRIZIONI E RICETTE FASULLE, RIMBORSI NON DOVUTI
Gian Marco Chiocci - Luca Rocca per Il Giornale - 24 febbraio 2011

L'imbarazzo dell'autore di Gomorra. Roberto Saviano, neo-icona della sinistra italiana, per qualcuno addirittura il suo prossimo leader, purtroppo per lui è alle prese coi guai giudiziari di suo padre, Luigi, medico di base alla Asl di Napoli, sotto processo per un storia di prestazioni inesistenti, prescrizioni e ricette fasulle, rimborsi non dovuti.

I fatti risalgono al periodo 2000-2004, ma il 19 maggio prossimo il tribunale di Santa Maria Capua Vetere (presidente Raffaello Magi, l'estensore della sentenza Spartacus al clan dei casalesi) dovrà decidere se accorpare al procedimento riguardante il papà dello scrittore un secondo filone, nel quale vengono contestati reati che sarebbero stati commessi fino al 2006 e che vede alla sbarra gli stesi imputati per gli stessi reati.

Luigi Saviano è imputato, insieme ad altri medici e professionisti, con l'accusa di truffa, ricettazione, corruzione e concussione ai danni dell'Asl. La vicenda, là dove si parla del ruolo dei medici di base, viene così descritta dalla procura che si è battuta per il rinvio a giudizio del genitore dell'illustre figlio e di altri coindagati: «Avevano il ruolo di stilare ricette riportanti prescrizioni fittizie di esami di laboratorio, con l'inserimento di nominativi, corrispondenti a propri ignari assistiti (che non hanno riconosciuto le prescrizioni loro attribuite) su ricettari loro assegnati».

L'aggravante sta nel danno patrimoniale, «di rilevante quantità», subito dalle aziende sanitarie locali che, sempre secondo i pubblici ministeri campani, «hanno provveduto alla liquidazione di quanto richiesto». Nelle carte in mano ai magistrati si parla anche dell'esistenza di un vero e proprio «mercato di notevoli dimensioni, ad oggetto la falsificazione e la spedizione di ricette mediche che vengono scambiate con assoluta semplicità da persone che non tengono minimamente conto dei gravi danni arrecati all'Erario».

Nelle contestazioni mosse a Luigi Saviano, nero su bianco si parla del «suo ruolo in seno all'organizzazione, in particolare quello di assicurare ai gestori di tali centri un ingiusto profitto derivante da una serie cospicua di ricette riportanti prescrizioni fittizie di analisi cliniche».

Su 54 pazienti interrogati «solo 9 hanno asserito di aver eseguito le diagnostiche loro prescritte, il dato è significativo per dimostrare l'intera percentuale (85 per cento) di incidenza delle false prescrizioni redatte da Saviano Luigi e portate in liquidazione» in centri riconducibili a un altro indagato. I pm hanno ascoltato anche le pazienti del «nonno di Gomorra», che hanno negato di aver mai fatto gli esami clinici che invece risultano realizzati a loro nome.

Un primo esempio. Gli accertamenti ormonali e gli esami allergici di Carmela A. non sarebbero mai stati eseguiti. La stessa donna rivela che «nel 2002 non mi sono nemmeno recata a Caserta per effettuare né prestazioni specialistiche». C'è poi Rosario A. e il suo presunto problema al ginocchio: «Io godo di buona salute in genere - dice il primo - non soffro di particolari patologie per cui debba sottopormi con frequenza a cure o ad indagini diagnostiche».

Una seconda donna, Vincenza C., smentisce di aver mai effettuato «indagini ormonali» nel 2002: «Confermo che il mio medico di base è il dottor Saviano Luigi - dice a verbale -, nel corso del 2002 non solo non sono andata a Caserta per fare prestazioni specialistiche» ma «non ho effettuato alcun prelievo di sangue negli ultimi 4 anni in alcun centro della Campania».

Nel 2006 l'allora legale di Saviano padre, Marina Di Siena, aveva commentato così l'iscrizione del suo assistito nel registro degli indagati: «Il dottor Saviano è stato in realtà vittima di una truffa, per un episodio che risale a un periodo a cavallo fra il terzo e il quarto trimestre del 2004».

Secondo la tesi difensiva, insomma, il padre di Roberto sarebbe una parte lesa di altrui raggiri, essendo all'oscuro di tutto perché ricoverato in un ospedale di Napoli dov'era in cura per problemi infettivi. La parola passa ora al tribunale, anche se il processo sembra destinato a finire in prescrizione. Giuridica, non medica.


4- BRANO TRATTO DA "GOMORRA" DI ROBERTO SAVIANO
[...]
D'improvviso mi sentii chiamare. Avevo capito ancor prima di voltarmi di chi si trattava. Era mio padre. Da due anni non ci vedevamo, avevamo vissuto nella stessa città senza mai incontrarci. Incredibile trovarsi nel labirinto di carne romano. Mio padre era imbarazzatissimo. Non sapeva come salutarmi e forse neanche se poteva farlo come avrebbe voluto.

Ma era euforico come in quelle gite dove sai che in poche ore ti capiteranno cose belle, le stesse che non potranno ripetersi per i successivi tre mesi almeno, e quindi vuoi berle tutte, sentirle sino in fondo, velocemente però, per paura di perdere le altre felicità nel poco tempo che ti rimane. Aveva approfittato del fatto che una compagnia rumena aveva abbassato i costi dei voli verso l'Italia, a causa della morte del papa, e così aveva pagato il biglietto a tutta la famiglia della sua compagna.

Tutte le donne del gruppo avevano un velo sui capelli e un rosario arrotolato intorno al polso. Impossibile capire in quale strada ci trovavamo, ricordo solo un enorme lenzuolo che campeggiava tra due palazzi. "Undicesimo comandamento: Non spingere e non sarai spinto." Scritto in dodici lingue. Erano contenti i nuovi parenti di mio padre. Contentissimi di partecipare a un evento così importante come la morte del papa.

Tutti sognavano sanatorie per gli immigrati. Soffrire per lo stesso motivo, partecipare a una manifestazione così immensa e universale era per questi rumeni il miglior modo di prendere cittadinanza sentimentale e oggettiva con l'Italia, prima ancora di quella legale. Mio padre adorava Giovanni Paolo II, il fascino di quell'uomo che faceva baciare a tutti la sua mano lo esaltava. Come era riuscito senza palesi ricatti e chiare strategie a raggiungere quel potere immenso d'ascolto, lo intrigava. Tutti i potenti si inginocchiavano dinanzi a lui. Per mio padre questo bastava per ammirare un uomo.

Lo vidi inginocchiarsi assieme alla madre della sua compagna per recitare un rosario improvvisato per strada. Dal mucchio di parenti rumeni, vidi spuntare un bambino. Capii subito che era il figlio di mio padre e di Micaela. Sapevo che era nato in Italia per poter avere la cittadinanza, ma che per esigenze della madre aveva sempre vissuto in Romania. Cercava di tenersi ancorato alla gonna della mamma.

Non l'avevo mai visto, ma conoscevo il suo nome. Stefano Nicolae. Stefano come il padre di mio padre, Nicolae come il padre di Micaela. Mio padre lo chiamava Stefano, sua madre e i suoi zii rumeni Meo. In breve sarebbe stato chiamato Nico, ma mio padre non aveva ancora avuto il tempo d'essere sconfitto.

Ovviamente il primo dono che aveva ricevuto dal padre appena sceso dalla scaletta dell'aereo, era un pallone. Mio padre vedeva per la seconda volta il figlioletto ma lo trattava come se fosse sempre stato dinanzi ai suoi occhi. Lo prese in braccio e mi si avvicinò. "Nico adesso viene a vivere qui. In questa terra. Nella terra del padre." Non so perché ma il bambino si intristì nell'espressione, lasciò cadere il pallone per terra, riuscii a fermarlo con un piede prima che si perdesse irrimediabilmente tra la folla.

Mi venne d'improvviso in mente l'odore mischiato di salsedine e polvere, di cemento e spazzatura. Un odore umido. Mi ricordai di quando avevo dodici anni sulla spiaggia di Pinetamare. Mio padre venne nella mia stanza, mi ero appena svegliato. Forse di domenica: "Ti rendi conto che tuo cugino già sa sparare, e tu? Sei meno di lui?". Mi portò al Villaggio Coppola, sul litorale domizio. La spiaggia era una miniera abbandonata di utensili divorati dalla salsedine e avvolti in croste di calce.

Sarei stato a scavare per giorni interi, trovando cazzuole, guanti, scarponi sfondati, zappe spaccate, picconi sbeccati ma non venivo portato lì per giocare nella spazzatura. Mio padre passeggiava cercando i bersagli, quelli che preferiva erano le bottiglie. Quelle Peroni, le predilette. Mise le bottiglie sul tetto di una 127 bruciata, ce n'erano molti di scheletri d'auto. Le spiagge di Pinetamare erano usate anche per raccogliere tutte le macchine bruciate usate per rapine o agguati.

La Beretta 92 Fs di mio padre me la ricordo ancora. Era tutta graffiata, sembrava brizzolata, una vecchia signora pistola. Tutti la conoscono come M9 non so perché. La sento sempre citare con questo nome: "Ti metto un M9 tra gli occhi, devo cacciare 1' M9? Cavolo, mi devo prendere un M9". Mio padre mi mise in mano la Beretta.

La sentii pesantissima. Il calcio della pistola è ruvido, sembra di carta vetrata, ti si appiccica nel palmo e quando ti sfili la pistola di mano sembra quasi che ti graffi con i suoi microdenti. Mio padre mi indicava come togliere la sicura, armare la pistola, stendere il braccio, chiudere l'occhio destro se il bersaglio era a sinistra e puntare.

"Robbe', il braccio morbido ma tosto. Insomma tranquillo, ma non flaccido... usa le due mani." Prima di tirare il grilletto con tutta la forza dei due indici che si spingevano a vicenda, chiudevo gli occhi, alzavo le spalle come se volessi tapparmi le orecchie con le scapole. Il rumore degli spari ancora oggi mi dà un fastidio terribile. Devo avere qualche problema ai timpani. Resto stordito per mezz'ora dopo uno sparo.

A Pinetamare i Coppola, famiglia di imprenditori molto potenti, costruì il più grande agglomerato urbano abusivo d'Occidente. Ottocentosessantatremila metri quadrati occupati col cemento, il Villaggio Coppola, appunto. Non fu chiesta autorizzazione, non serviva, in questi territori le gare d'appalto e i permessi sono modi per aumentare vertiginosamente i costi di produzione poiché bisogna oliare troppi passaggi burocratici. Così i Coppola sono andati direttamente con le betonerie.

Quintali di cemento armato hanno preso il posto di una delle pinete marittime più belle del Mediterraneo. Furono edificati palazzi dai cui citofoni si sentiva il mare. Quando centrai finalmente il primo bersaglio della mia vita provai una sensazione mista di orgoglio e senso di colpa. Ero stato capace di sparare, finalmente ero capace. Nessuno poteva più farmi del male. Ma ormai avevo imparato a usare un arnese orrendo. Uno di quelli che una volta che lo sai usare non puoi più smettere di usarlo.

Come imparare ad andare in bicicletta. La bottiglia non era esplosa completamente. Anzi era persino rimasta in piedi. Sventrata a metà. La metà destra. Mio padre si allontanò verso la macchina. Rimasi lì con la pistola, ma è strano non mi sentii solo, nonostante fossi circondato da spettri di spazzatura e metallo. Tesi il braccio verso il mare e tirai altri due colpi nell'acqua. Non li vidi schizzare, né forse raggiunsero l'acqua. Ma colpire il mare mi sembrava una cosa coraggiosa.

Mio padre arrivò con un pallone di cuoio, con sopra l'effigie di Maradona. Il premio per la mira. Poi si avvicinò come sempre alla mia faccia. Sentivo il suo alito di caffè. Era soddisfatto, ora quantomeno suo figlio non era da meno del figlio di suo fratello. Facemmo la solita cantilena, il suo catechismo: "Robbe', cos'è un uomo senza laurea e con la pistola?" "Uno stronzo con la pistola." "Bravo. Cos'è un uomo con la laurea senza pistola?" "Uno stronzo con la laurea..." "Bravo. Cos'è uomo con la laurea e con la pistola?" "Un uomo, papà!" "Bravo, Robertino!"

Nico camminava ancora incerto. Mio padre gli parlava a raffica. Non capiva il piccolo. Per la prima volta sentiva parlare in italiano, anche se la mamma era stata abbastanza furba da farlo nascere qui. "Ti somiglia, Roberto?" Lo guardai a fondo. E fui felice, per lui. Non mi somigliava per nulla. "Per fortuna non mi somiglia!" Mio padre mi guardò con la solita delusa espressione, come dire che ormai neanche scherzando mi avrebbe sentito dire ciò che avrebbe voluto ascoltare.

Avevo sempre l'impressione che mio padre fosse in guerra con qualcuno. Come se dovesse svolgere una battaglia con alleanze, precauzioni, macchinoni. Andare in un albergo due stelle per mio padre era come perdere prestigio verso qualcuno. Come se dovesse rendere conto a un'entità che l'avrebbe punito con violenza se non avesse vissuto nella ricchezza e con un atteggiamento autoritario e buffonesco.

"Il migliore, Robbe', non deve avere bisogno di nessuno, deve sapere certo, ma deve anche fare paura. Se non fai paura a nessuno, se nessuno guardandoti non si mette soggezione, allora in fondo non sei riuscito a essere veramente capace." Quando andavamo a mangiare fuori, nei ristoranti si sentiva infastidito dal fatto che spesso i camerieri servivano, anche se entravano un'ora dopo di noi, alcuni personaggi della zona. I boss si sedevano e dopo pochi minuti ricevevano tutto il pranzo. Mio padre li salutava.

Ma tra i denti strideva la voglia di avere il loro medesimo rispetto. Rispetto che consisteva nel generare eguale invidia di potenza, eguale timore, medesima ricchezza. "Li vedi quelli. Sono loro che comandano veramente. Sono loro che decidono tutto! C'è chi comanda le parole e chi comanda le cose. Tu devi capire chi comanda le cose, e fingere di credere a chi comanda le parole. Ma devi sempre sapere la verità in corpo a te.

Comanda veramente solo chi comanda le cose." I comandanti delle cose, come li chiamava mio padre erano seduti al tavolo. Avevano deciso della sorte di queste terre da sempre. Mangiavano assieme, sorridevano. Negli anni poi si sono scannati tra loro, lasciando scie di migliaia di morti, come ideogrammi dei loro investimenti finanziari. I boss sapevano come rimediare allo sgarbo d'essere serviti per primi. Offrivano il pranzo a tutti i presenti nel locale. Ma solo dopo essersene andati, temendo di ricevere ringraziamenti e piaggerie. Tutti ebbero il pranzo pagato, tranne due persone.

Il professore lannotto e sua moglie. Non li avevano salutati, e loro non avevano osato offrirgli il pranzo. Ma gli avevano fatto dono, attraverso un cameriere, di una bottiglia di limoncello. Un camorrista sa che deve curarsi anche dei nemici leali poiché sono sempre più preziosi di quelli nascosti. Quando dovevo ricevere un esempio negativo mio padre mi additava il professor Iannotto. Erano stati a scuola insieme. Iannotto viveva in fitto, cacciato dal suo partito, senza figli, sempre incavolato e mal vestito.

Insegnava al biennio di un liceo, lo ricordo sempre a litigare con i genitori che gli chiedevano a quale suo amico mandare i figli a ripetizione privata per farli promuovere. Mio padre lo considerava un uomo condannato. Un morto che camminava. "È come chi decide di fare il filosofo e chi il medico, secon do te chi dei due decide della vita di una persona?" "Il medico!" "Bravo. Il medico. Perché puoi decidere della vita delle persone. Decidere. Salvarli o non salvarli. È così che si fa il bene, solo quando puoi fare il male. Se invece sei un fallito, un buffone, uno che non fa nulla.

Allora puoi fare solo il bene, ma quello è volontariato, uno scarto di bene. Il bene vero è quando scegli di farlo perché puoi fare il male." Non rispondevo. Non riuscivo mai a capire cose volesse realmente dimostrarmi. E in fondo non riesco nemmeno ora a capirlo. Sarà anche per questo che mi sono laureato in filosofia, per non decidere al posto di nessuno. Mio padre aveva fatto servizio nelle ambulanze, come giovane medico, negli anni '80.

Quattrocento morti l'anno. In zone dove si ammazzavano anche cinque persone al giorno. Arrivava con l'autoambulanza, quando però il ferito era per terra e la polizia non ancora arrivata non si poteva caricarlo. Perché se la voce si spargeva, i killer tornavano indietro, inseguivano l'autoambulanza, la bloccavano, entravano nel veicolo e finivano di portare a termine il lavoro. Era capitato decine di volte, e sia i medici che gli infermieri sapevano di dover star fermi dinanzi a un ferito e attendere che i killer tornassero per finire l'operazione.

Una volta mio padre però arrivò a Giugliano, un paesone tra il napoletano e il casertano, feudo dei Mallardo. Il ragazzo aveva diciotto anni, o forse meno. Gli avevano sparato al torace, ma una costola aveva deviato il colpo. L'autoambulanza arrivò subito. Era in zona. Il ragazzo rantolava, urlava, perdeva sangue. Mio padre lo caricò. Gli infermieri erano terrorizzati. Tentarono di dissuaderlo, era evidente che i killer avevano sparato senza mirare e erano stati messi in fuga da qualche pattuglia, ma sicuramente sarebbero ritornati.

Gli infermieri provarono a rassicurare mio padre: "Aspettiamo. Vengono, finiscono il servizio e ce lo portiamo". Mio padre non ce la faceva. Insomma, anche la morte ha i suoi tempi. E diciotto anni non gli sembrava il tempo per morire, neanche per un soldato di camorra. Lo caricò, lo portò all'ospedale e fu salvato. La notte, andarono a casa sua i killer che non avevano centrato il bersaglio come si doveva. A casa di mio padre. Io non c'ero, abitavo con mia madre.

Ma mi fu raccontata talmente tante volte questa storia, troncata sempre nel medesimo punto, che io la ricordo come se a casa ci fossi stato anche io e avessi assistito a tutto. Mio padre, credo, fu picchiato a sangue, per almeno due mesi non si fece vedere in giro. Per i successivi quattro non riuscì a guardare in faccia nessuno. Scegliere di salvare chi deve morire significa voler condividerne la sorte, perché qui con la volontà non si muta nulla.

Non è una decisione che riesce a portarti via da un problema, non è una presa di coscienza, un pensiero, una scelta, che davvero riescono a darti la sensazione di star agendo nel migliore dei modi. Qualunque sia la cosa da fare, sarà quella sbagliata per qualche motivo. Questa è la vera solitudine. Il piccolo Nico era tornato a ridere. Micaela ha più o meno la stessa mia età.

Anche a lei, quando confessava di andare in Italia, di andarsene via, avranno fatto gli auguri senza chiederle nulla, senza sapere se andava a far la puttana, la sposa, la colf, o l'impiegata. Non sapendo altro che andava via. Condizione sufficiente di fortuna. Nico però ovviamente non pensava a nulla. Serrava la bocca all'ennesimo frullato che la madre gli dava per ingozzarlo. Mio padre per farlo mangiare gli pose il pallone vicino ai piedi, Meo lo calciò con tutta la forza. La palla rimbalzò su ginocchia, tibie, punte di scarpe, di decine di persone. Mio padre iniziò a rincorrerla.

Sapendo che Nico lo guardava, finse goffamente di dribblare una suora, ma la palla gli scappò nuovamente dai piedi. Il piccolo rideva, le centinaia di caviglie che vedeva distendersi dinanzi agli occhi lo facevano sentire in una foresta di gambe e sandali. Gli piaceva vedere il padre, nostro padre, affaticare la sua pancia per prendere quel pallone. Cercai di alzare la mano per salutarlo, ormai un muro di carne l'aveva bloccato. Sarebbe rimasto ingorgato per una buona mezz'ora. Inutile aspettare.

Era davvero tardi. La sagoma non si intuiva neanche più, ormai era stata inghiottita sin nello stomaco della folla. Mariano era riuscito a incontrare Michail Kalashnikov. Era stato un mese in giro per l'est Europa. Russia, Romania, Moldavia: una vacanza premio regalata dai clan. Lo rividi proprio in un bar a Casal di Principe. Lo stesso bar di sempre. Mariano aveva un grosso pacco di fotografie legate con l'elastico come fossero figurine Panini pronte allo scambio.

Erano ritratti di Michail Kalashnikov autografati con dediche. Prima di ripartire, si era fatto stampare decine e decine di copie di una foto di Kalashnikov ritratto nella divisa di generale dell'Armata Rossa, con al petto una cascata di medaglie: l'ordine di Lenin, la medaglia d'onore della Grande guerra patriottica, la medaglia dell'Ordine della Stella Rossa, quella dell'Ordine della Bandiera Rossa del Lavoro.

Mariano era riuscito a raggiungerlo grazie alle indicazioni di alcuni russi che facevano affari con i gruppi del casertano, e proprio da questi era stato presentato al generale. Michail Timofeevic Kalashnikov viveva in un appartamento in fitto in un piccolo paese ai piedi degli Urali, Izhevsk-Ustinov, che sino al 1991 non era neanche registrato sulla carta geografica.

 

 

 

 

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