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Marco Giusti per Dagospia
Ultimo giorno del Festival di Roma. "Dai, cazzo!". In una sola serata ha già fatto 900.000 euro, entro domenica sera l'incasso previsto è di oltre 3 milioni di euro. In un'Italia sommersa dalla pioggia e dalla merda di un governo in agonia che non se ne vuole andare, i pischelli italiani sono tutti al cinema a vedere "I soliti idioti".
Alla faccia di Berlusconi, di Santoro e Della Valle, di Renzi e Giorgio Gori, di una tv (Rai+Mediaset) completamente svuotata, di Concita che non ci ha capito 'na mazza (ma dicono che ci vuole tornare...), di Natalia Aspesi che ha scoperto Cattelan, di Pupi Avati che ancora si domanda perché non lo amiamo (chiedilo a La Russa e a Galan) e, soprattutto, alla faccia di Piera De Tassis che lo ha rifiutato nel suo festival non capendo che per Roma l'unica strada che porta alla vittoria è quella compresa tra il porchettaro e il cinema popolare. Sarebbe stato meglio buttar via Avati e prendersi "I soliti idioti".
Non solo perché è un film più interessante e riuscito (ma chi se lo andrà a vedere "Il cuore grande delle donne"?), ma soprattutto perché il cinema medio alla Avati o alla Cristina Comencini o alla Roberto Faenza non esiste più, mentre, con tutti i suoi limiti, "I soliti idioti", piccolissimo cinema nato da YouTube è qualcosa di fresco e vitale che avrebbe ringiovanito il Festival. Detto questo, devo purtroppo ammettere che ieri sera, arrivato al cinema Adriano per l'ultimo spettacolo del Tin Tin di Steven Spielberg, presentato in anteprima proprio a Roma, non solo ho trovato la sala vuota, ma che mi sono addormentato dopo mezzora.
Con tutti i suoi soldi e la sua incredibile tecnica, il faccione freddo ricostruito in digitale di Tin Tin non trasmetteva nessuna vitalità , mentre quello di gomma di "Dai cazzo!" Ruggero metteva allegria. Non parliamo poi del 3D di Totò in "Il più comico spettacolo del mondo", molto più inventivo di quello del film di Spielberg, per non parlare di quello, totalmente inutile, di Wim Wenders per "Pina 3D". Ora, tutti avrebbero programmato Tin Tin in un festival, anche se usciva nelle nostre sale il giorno dopo, e anche quel polpettone indigesto del film di Wenders.
E, comunque, la Detassis ha fatto un buon festival, ha riempito le sale di un pubblico romano e popolare che si è divertito, ha avuto la fortuna di un tempo meraviglioso (non è mai piovuto...), non ha avuto dei capolavori in concorso, ma erano tutti film dignitosi. La giuria (ma perché c'era Roberto Bolle?) ha premiato film di buon livello come l'argentino "Un cuento chino" di Sebastian Borensztein e il franco-canadese "Voyez comme ils dansent" di Claude Miller, che certo non possono competere con i Polanski o Sokurov visti a Venezia.
Ma le due opere prime italiane, "La kryptonite nella borsa" di Ivan Cotroneo e "Il paese delle spose infelici" di Pippo Mezzapesa, erano davvero buone sorprese. I documentari di Extra sono stati molto apprezzati ("Project Nim" verrà distribuito dalla Sacher di Moretti), i film del Focus inglese (Terence Davies, Paddy Considine), purtroppo difficilmente vedibili passando una volta sola, erano notevoli. Quello che manca al Festival, e in gran parte mancava anche gli anni scorsi, è proprio un po' di coraggio nelle scelte, soprattutto nel concorso, e un po' di vitalità nelle sezioni parallele.
Ovvio che il Festival è stritolato da Cannes e Venezia, ovvio che deve andare a recuperare tra il già visto al Sundance e Toronto, ovvio anche che è obbligato a presentare film un po' istituzionali come "L'industriale" di Giuliano Montaldo, che era anche più interessante del previsto, ma qualche invenzione se la potrebbe permettere. Nel ripescaggio dal passato, come ha dimostrato con il "Totò 3D" ricostruito da De Laurentiis o con il commovente documentario su Lilia Silvi ("In arte Lilia Silvi") di Mimmo Verdesca, nella stravaganza calcistica, vedi il documentario su Di Bartolomei, nell'ormai fondamentale rapporto fra arte e cinema.
Non potendo puntare sullo snobismo cinefilo, sull'estremismo di genere, campi già occupati dalla Venezia di Muller e mai battuti da Roma, che almeno ci tolga qualche ovvietà e punti con maggiore decisione al cinema popolare. Anche perché è un festival popolare e cittadino, dove i romani fanno chiacchiere al bar e il critico più straniero, Mereghetti a parte, viene da Roma nord, e non per ricchi e per giornalisti come Venezia, dove una camera costa 300 euro a notte.
Per questo potevamo fare a meno di "The Lady" di Luc Besson (apertura un po' loffia) e del film Pupi Avati (almeno animato dai fischi di Claudio Amendola a La Russa e dalla performance di Isabelle Adriani). Ma non dovevamo privarci di "I soliti idioti".
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