DAGOREPORT – MARINA E PIER SILVIO NON HANNO FATTO I CONTI CON IL VUOTO DI POTERE IN FAMIGLIA…
Antonio Monda per “Tuttolibri - la Stampa”
Pochi film hanno un alone mitico come Il Mucchio Selvaggio: per la sua straordinaria qualità artistica, per un’estetica rivoluzionaria, e per le interpretazioni di stampo opposto che scatenò al tempo della sua uscita, sia sul piano antropologico che politico. Un bel libro appena pubblicato in Italia da Jimenez, con il titolo Il Mucchio Selvaggio: Sam Peckinpah una rivoluzione a Hollywood e la storia di un film leggendario, ne analizza la rocambolesca realizzazione e gli effetti che ebbe su un mondo in rapida e ineluttabile trasformazione.
Il mito del film è lungi dal tramontare, e Stratton mette in parallelo l’analisi critica con il contesto storico-politico: Sam Peckinpah diresse il suo capolavoro, scritto insieme a Walon Green, nel periodo in cui un gruppo di registi di talento prendevano il sopravvento sui produttori sulle ceneri dello studio system, spostando sugli autori il controllo artistico delle pellicole. Fu un periodo breve ed eccitante, nel quale vennero realizzati molti capolavori, prima che, inevitabilmente, gli studios riprendessero in mano le redini del potere.
Se da un punto di vista del rapporto tra artista e committente si tornò all’eterno ritorno dell’identico, da un punto di vista espressivo i cambiamenti segnarono un punto di non ritorno, e pochi film come il Mucchio segnano un cambiamento irreversibile. Tuttavia, non era soltanto Hollywood a essere nel pieno di una rivoluzione: l’anno di produzione del Mucchio Selvaggio è 1968, e il film risente di tutte le pulsioni di quel periodo, in particolare nella ribellione a ogni forma di autorità.
Stratton ricorda la poesia di Yeats in cui si parla della «totale anarchia sparsa nel mondo», e sottolinea il ruolo della guerra del Vietnam, di cui ricorda una strage all’inizio del libro, speculare ai due massacri raccontati da Peckinpah nel film. Sul piano linguistico ciò che colpisce ancora oggi è il montaggio velocissimo, l’uso impareggiabile del ralenti e la coreografia delle scene di violenza, per cui la critica americana parlò di tableaux mourants, la celebrazione della vita in punto di morte.
Ma la rivoluzione principale è sul piano dei contenuti: i protagonisti sono dei criminali per i quali il pubblico è portato a tifare, perché legati a codici di onore e principi indissolubili quali l’amicizia, all’interno di un mondo dominato dagli interessi e una volontà di potere senza gioia.
Gli uomini del Mucchio Selvaggio sono ladri e assassini, ma tutti gli altri personaggi sono moralmente peggiori: soltanto Il Padrino, realizzato tre anni dopo, propose un simile capovolgimento di prospettiva, e non è certamente un caso che Peckinpah venne preso in considerazione per dirigerlo. Come nel Padrino siamo portati a conoscere, e quindi amare, gli uomini prima dei criminali: una rivoluzione che sconvolse il pubblico e la critica, che, anche per via della violenza, parlò con superficialità di film reazionario se non addirittura fascista.
Il libro si dilunga sulla scena più bella e leggendaria: quella in cui i quattro superstiti del Mucchio si avviano a tentare di salvare l’amico catturato dal generale Mapache, sapendo di andare a morire. Non hanno alcuna chance di aver successo, ma sanno di obbedire a un obbligo morale: è un momento di altissima scrittura cinematografica: le uniche battute sono «andiamo» e «perché no», seguite dal sorriso di chi ha riscattato la propria anima. Nei minuti successivi segue una camminata estenuata che è diventata un’icona: i quattro uomini che entrano in un forte arso dal sole sono un momento di cinema allo stato puro.
Sono moltissimi gli aneddoti che colorano la leggenda, a cominciare dall’indissolubile amicizia di Peckinpah con Emilio Fernandez, che nel film interpreta il debosciato e violento Mapache: regista di valore e attore di grande presenza, «El Indio» avrebbe ucciso - secondo quello che si diceva all’epoca in Messico- sette persone, tra le quali un critico che aveva stroncato un suo film. Stratton sottolinea anche come Peckinpah fosse il primo a vedere con orrore e malinconia un mondo dominato dalla violenza, ma è consapevole della persistenza del male, e non è un caso che citi quanto dice William Holden, che interpreta Pike, il leader del gruppo: «Dobbiamo usare il cervello, non solo le pistole, quei giorni stanno passando velocemente».
La battuta contrasta con una frase di DH Lawrence, posta sintomaticamente in esergo: «Nella sua essenza, l’animo americano è duro, isolato e omicida. Non si è ancora mai intenerito». Peckinpah, che dava il comando di iniziare una scena con un colpo di pistola, amava circondarsi di amici fidati: per lo più compagni di bevute, con i quali celebrava un’amicizia con cui contrastava un mondo nel quale non si riconosceva.
Il libro racconta gli infiniti scontri con produttori e studios, e persino con gli amatissimi messicani: uno dei paradossi del film è la nascita di un’istituzione chiamata «Giustizia per i Chicanos nell’industria cinematografica», che accusava il regista di aver celebrato come un gruppo di pochi americani fossero in grado di sgominare centinaia di messicani. Il regista ne fu sconcertato e ferito, ma non perse la passione per quel paese, dove tornò a girare Pat Garrett e Billy the Kid e Voglio la testa di Garcia insieme all’amico Emilio Rodriguez.
Quando la MGM impose nuovi tagli fu sul punto di assoldare un killer per portare i produttori a più miti consigli: furono gli amici a dissuaderlo, consigliandogli di farci una bella bevuta, in fondo si trattava soltanto di film. Lui cominciò a bere e non smise più, morendo di cirrosi epatica pochi anni dopo.
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