DAGOREPORT - TONY EFFE VIA DAL CONCERTO DI CAPODANNO A ROMA PER I TESTI “VIOLENTI E MISOGINI”? MA…
Anna Gandolfi per corriere.it - Estratti
«È permesso? Posso sedermi?».
Enrico Beruschi ha appena attraversato la sala di un bar in cui tutti lo conoscono: sfodera una gentilezza d’altri tempi («Le ricordo la mia età?») e regge almeno quattro-cinque soste. Buongiorno, buonasera, quanto tempo, mio figlio è a scuola con sua nipote, la tv era meglio quando c’era lei. «Che di solito mi chiedono: perché non ti vediamo più in tv?».
Ma non vale la pena di anticipare questa risposta.
Nato al Ticinese di Milano, Beruschi vive ad Arese dal 1980 e ad Arese dà l’appuntamento. A 83 anni non farà tv ma in compenso entra ed esce da teatro. «Tra poco scappo: in via Fezzan, a Milano, portiamo Il Misantropo di Molière. La mia è la voce esterna e non ho costume di scena, a parte forse la cravatta». Abbassa gli occhi. Pirotecnici fiori rossi sbocciano su fondo grigio. «Mi sa che terrò questa: non è mica male. Si fa guardare, non trova?».
(...9
Quando era capo ufficio?
«Quando sapevo che in Fininvest avrei incrociato Silvio Berlusconi. Ci voleva in ordine. Già aveva digerito la mia barba...».
La regola «in onda non vanno barbe e teste pelate»…
«Io però l’avevo convinto: la barba è parte del personaggio. Anzi: di me. Sedicenne l’ho fatta crescere per protesta (i miei mi avevano vietato una festa): mai tagliata, 67 anni di onorata carriera. Tra l’altro mi aiuta».
Per cosa?
«Ho la bocca storta (un dente e mezzo di spostamento): la barba mimetizza. Posso quasi parlare a labbra serrate, la gente resta di stucco: che divertimento già a scuola. Avevo 10 in condotta perché per i prof non chiacchieravo. È diventato il mio piatto forte...».
Scatta la dimostrazione. Faccia mobile, occhiolino, doppio occhiolino, poi triplo con sorriso ipnotico.
Obiettivo raggiunto. Ci ha fatto finire dritti nella televisione degli anni 80.
«Vede: quando recito non simulo la faccia storta, è storta davvero».
Riavvolgiamo il nastro. Dunque Enrico Beruschi, celebrità comica di una tv pionieristica, indimenticabile ragioniere di «Drive In», adesso cosa fa?
«Teatro, letture su Guareschi, regie di lirica, sto scrivendo un’autobiografia. Grazie per l’”indimenticabile”: in tv non la pensano così. Qualcuno mi definisce meteora».
Lo è?
«Ho iniziato al Derby di via Monte Rosa nel ‘72, ho fatto Non Stop nel ‘77, nel ‘78 La Sberla, pure Sanremo nel '79 (un comico in finale), nell’83 Drive In, senza contare Luna park, il Circo, Conto su di te e altro, a seguire le parti al cinema e il teatro. Una meteora sparisce, io dispettosamente persisto».
ENRICO BERUSCHI DURANTE UNA PUNTATA DI DRIVE IN
Da quanto è in pensione?
«Dal 1994, avevo 53 anni»
.
Questa è una delle sue battute.
«No: è vero. Allora gli attori andavano in pensione presto, ho sommato 15 anni di contributi e altrettanti dai lavori precedenti. In verità ho continuato a fatturare, quindi fino a 65 anni non ho visto pensioni. Tuttora lavoro».
Ma non è più in tv.
«Con Antonio Ricci, che è un amico (a lui si deve Drive In, ndr), poco tempo fa ho registrato tre puntate di Striscia la notizia sostituendo all’ultimo Enzo Iacchetti che era malato. Ezio Greggio non lo vedevo da tanto però è stata subito sintonia. Ammetto: una parentesi, non faccio più tv. Perché? Non lo deve chiedere a me».
Agli atti il tono amareggiato. Rilanciamo: secondo lei perché?
«Forse sono fuori registro. La nostra era una tv fantasiosa, per qualcuno “piccante”, in verità se la guardi ora è una clausura, è ingenua. Una volta ho protestato perché una scena finiva con una ragazza fast food sull’auto in cui si abbassavano i sedili. “Lasciare intendere è ok, però le ragazze devono restare nel sogno”. Si sono rialzati i sedili. Mi hanno ascoltato».
Drive In è un cult.
«Avevamo registrato la puntata pilota a Roma, sapevamo di avere contro diversi pezzi grossi in Fininvest: definivano il programma “strano”. Ultimato il lavoro Ricci, Greggio, Giancarlo Nicotra e io abbiamo studiato un piano. Loro sono partiti in auto per portare la cassetta a Berlusconi, a Milano, e chiedere il via libera, a me hanno affidato la seconda copia (se la prima fosse “accidentalmente” sparita?). Mi sono chiuso in un residence, ho messo la cassetta sotto il letto e ho fatto la guardia per 24 ore».
Come è andata?
enrico beruschi e la moglie adelaide
«Berlusconi non li riceveva: “Non ho tempo, andate a pranzo”. Abbiamo scoperto solo dopo che in pausa aveva convocato impiegati e persone fidate per chiedere un parere. Drive In è piaciuto. Ricordo la chiamata: Enrico, puoi uscire…».
Lei aveva già un contratto?
«Nella primavera '82 avevo fatto uno spettacolo nella Club House a Milano 2. Berlusconi era il padrone di casa, siamo restati fino all’una di notte: lui cantava, Smaila suonava. A novembre ci siamo incrociati a un concerto di Liza Minelli. “Enrico, hai visto che ho fatto la televisione vera? Cosa aspetti a presentarti?”. Io allora lavoravo in Rai ma non ci ho pensato due volte».
Cachet?
«Contratto in esclusiva, appunto, e compenso strabiliante: cinque volte quello della Rai».
Ha lasciato la trasmissione dopo soli tre anni.
«Che pirla. Finiva l’esclusiva, stupidamente ho pensato: esploro il mondo. Berlusconi lo viene a sapere, mi convoca in via Rovani, usa la sua tecnica: mi fa fare un’ora di anticamera, intanto arrivano casualmente prima un tecnico, poi una segretaria, poi una signora delle pulizie, tutti a dire: non andare. Invece sono andato».
E?
«Mi sono bloccato. Ipotizzarono per me il sabato sera su Canale 5 con Paolo Villaggio, i due ragionieri. Villaggio però non condivise: due son troppi. Lui era quello “di peso”, bye bye Beruschi».
Pentito?
«Non rimpiango niente. Certo un po’ brucia: mea culpa».
Berlusconi l’ha più rivisto?
«Tre anni fa a una cena di Forza Italia a cui mi sono ritrovato per caso, c’erano amici di amici. Anche lui esclama: “Non ti si vede più in tv, perché?”. “Presidente, non lo deve chiedere a me”».
Al timone di Mediaset c’è Pier Silvio Berlusconi.
«Abbiamo anche girato una puntata di Drive in per i suoi 18 anni. Se volesse, son qui…».
Il suo personaggio storico è il farfallone con una moglie implacabile.
«C’è chi pensa che Margherita Fumero, con cui siamo amicissimi, sia davvero mia moglie. In verità io ho appena festeggiato i 50 anni di matrimonio con Adelaide».
Con Margherita Fumero
Che ai tempi del farfallone già c’era.
«Ogni tanto mi diceva e mi dice: sembri proprio scemo. Ci siamo sposati nel 1974, 20 luglio. I suoi genitori insistevano perché mi mollasse dopo che ero andato a vivere da solo in piazza Borromeo: “Non vuole mettere su famiglia”. Complice la mia zia Tina, che aiutò Adelaide nel diabolico piano di accelerare le pubblicazioni, in sei mesi ero sposato. Ah, che tragedia».
Beruschi, sta tornando nella parte.
«È più forte di me. Una volta si sono inventati un servizio fotografico con Adelaide e Margherita insieme. Abbiamo preso il taxi tutti e tre, loro a discutere: ah l’Enrico a casa fa così, ah, sul set fa cosà. Sembravano due vere mogli. Il tassista continuava a sbagliare strada, alla fine confessa: “Non vi faccio pagare, avrei ascoltato per ore”».
Con Adelaide come vi siete conosciuti?
«Poco più che ventenne sono stato assunto in Galbusera, la ditta di dolci. Entravo nella sede di via Padova da capo ufficio, lei era impiegata: tristissima, avevano scelto il candidato più brutto».
La sua prima vita: ragioniere in Galbusera.
«Fino a diventare vicedirettore commerciale. Qualche collega oggi se ne esce: il ragioniere ci terrorizzava».
Addirittura.
«Ero lo strano figuro che raccontava di essere amico di Cochi e Renato ma allo stesso tempo dava le multe ai venditori: 5 mila lire per un errore così così, 10 per uno grosso (a una certa cifra raccolta si andava tutti a cena). Ero puntiglioso. I sindacati non mi amavano».
Quando ha fatto il salto nello spettacolo?
«Nel 1972 ho seguito personalmente la meccanizzazione dell’azienda: arrivavano computer giganteschi. Un lavoro ben riuscito, prendevo 300 mila lire al mese e mi aspettavo un aumento di stipendio. Invece mi diedero una pacca sulla spalla e una mancetta. Sono rimasto male. Per sbollire quella sera sono andato al Derby, dove si esibivano da tempo Cochi e Renato, miei ex compagni di scuola. Mi vede Walter Valdi e dice: “Uè, se dis che te set bon de fa rid, duman sera te provet”. Domani provi. Che choc».
Non è andata male, pare.
«Ho raccontato barzellette. La gente ha riso. Però se chiedete cosa è per me il terrore, è il tendone rosso del Derby. Per un po’ sono andato in ufficio di giorno e di notte al cabaret. Alla fine ho scelto».
Ci dica di Cochi e Renato.
«Pozzetto era in classe con me alle medie di via Tabacchi. Ripeteva l’anno, io ero un po’ secchione, gli passavo i compiti di matematica mentre lui mi aveva nominato con grande magnanimità (dato quanto ero schiappa) prima riserva nella squadra di pallavolo della scuola. Al Cattaneo, per la ragioneria, c’era poi anche Cochi: una volta si è messo a cantare “Temptation” fingendo di rivolgersi a una spasimante. Non aveva gli occhiali, non si accorse di cantare la serenata a un prof che ci mise tutti e tre in punizione».
Vi sentite ancora?
«Con Cochi sì, con Renato meno. I rapporti sono cordiali».
Ha figli?
«Due: Filippo (’76) e Gloria (‘79) che mi ha dato una nipote meravigliosa, Susanna».
È vero che suo figlio ha una band death metal?
«In verità adesso è più impegnato nel percorso di regista. Non ha mai usato il suo vero nome e ha avuto successo (con lo pseudonimo di Aleister Demon, il gruppo sono i Faust, ndr)».
Dunque in casa Beruschi giravano i metallari.
«Prove in taverna».
Invece lei ama la lirica.
«Sono appassionato, non canto - sono totalmente stonato - ma ho fatto un po’ di regia. Anni fa Riccardo Muti mi ha proposto una particina, il finto notaio nel Don Pasquale. Ho declinato: le prove si sarebbero sovrapposte alle repliche di uno spettacolo avviato con una piccola produzione. Volevo essere corretto. Invece, oltre al danno, la beffa: il progetto è finito male, con dissidi che non sto a raccontare, ci ho pure rimesso 30 milioni di lire. Soprattutto: ho perso il lavoro con il grande Muti».
Questo è un rimpianto?
«Confermo che no, non ho rimpianti. Anche questa è andata così: storta. Amen».
In compenso ha parecchie cose raccontare nell’autobiografia.
«Oh, sì. Il libro è terminato, esce a breve con Sagoma editore. Si intitola “Enrico Beruschi, una vita meravigliao”».
Scusi ma quello del meravigliao non era Arbore?
Nuovo sorriso. La faccia torna plastica. Rispunta il personaggio.
«Ma prima c’era il Beruscao...».
enrico beruschi al pranzo per i senzatetto organizzato dai city angels a milano 4enrico beruschi
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