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Felice Picano per “Daily Beast”
Quando, all’inizio dell’anno, ha chiuso la libreria Rizzoli sulla 57esima Strada, in molti si sono lamentati per la perdita. Era l’ultimo negozio davvero elegante rimasto a Manhattan. Ma per alcuni di noi la tristezza era moderata perché, dopotutto, non era la reale libreria Rizzoli aperta negli anni Sessanta al 712 della Fifth Avenue. Quella era un posto unico, venduta già dieci anni fa a Bendel, e chi ci ha lavorato lo ricorda bene.
L’italiano Angelo Rizzoli aveva un impero mediatico e comprò quel palazzo per fornire al suo staff un quartier generale a New York, dove presentare la cultura italiana ai residenti. Non era nato per una cosa volgare come guadagnare soldi. Anzi, li perdeva gentilmente, elegantemente, non tutti in una volta. Si trovava accanto alla gioielleria “Harry Winston”, di fronte a “Tiffany’s” e al “George Jensen Fine Glass”, tra il “Plaza” e il “St. Regis”.
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Una volta entrati ci si trovava faccia faccia con l’artigianato italiano in forma di lampadari veneziani, pavimenti in marmo bianchi e neri, scaffali in fine legno. Ogni dettaglio non era solo perfetto, ma un pezzo d’arte. Dalle balconate soffiavano i mandolini dei concerti di Vivaldi e i violini dell’”Adagio” di Albinoni. Sulle pareti erano appesi quadri e disegni e sembrava un castello, un piccolo museo, tutto tranne una libreria.
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Un amico guardò meravigliato il posto e mi chiese com’era lavorare lì dentro. Risposi: «Come l’ultimo atto di un’opera italiana». In questo clima sofisticato, il negozio si fece presto una clientela. Lo staff era incredibile. Per lavorare da Rizzoli dovevi saper parlare almeno tre lingue (anche i clienti erano poliglotti, tra loro c’era Salvador Dalì che ne parlava una mezza dozzina), ed essere un artista.
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Il nostro manager aveva studiato pianoforte con Maurizio Pollini. Erano stati assunti musicisti come Viki Roth, Dennis Sanders, John Brancati e Ruth Oesch, alunno di Igor Stravinsky, scrittori come Alex Mdevi e Jack Markowitz. C’era bisogno di simili commessi, data la tipologia di clienti che si presentava dopo cena. Potevi trovarci John Lennon che discuteva su un autore con May Pang, Mick Jagger che leggeva un libro mentre aspettava la sua bella Bianca, Elton John che cercava idee per arredare il suo castello nel sud della Francia, Anthony Quinn in compagnia di Gregory Peck, Greta Garbo a caccia di riviste di moda francesi, Maria Callas, Josephine Baker. Oriana Fallaci entrò nel negozio, appena dopo essere stata liberata da una prigione algerina, e fece richieste impossibili. Tra i miei clienti affezionati c’erano S.J. Perelman, Dalí, Jacqueline Kennedy Onassis, Dalì.
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Insomma le cose andavano alla grande, così vennero aperte succursali a Union Square, Soho, e in altre sette città americane, per riprodurre l’irriproducibile. Per 12 anni, indipendentemente da ciò che accadeva politicamente e finanziariamente a New York, Manhattan fu la capitale culturale del mondo. In quegli anni Settanta era il posto dove tutti passavano o abitavano. L’arte prendeva vita da Rizzoli.
- Estratto da “Nights at Rizzoli”, il memoir di Felice Picano che nel 1971 fu assunto come commesso part-time nella più famosa libreria di New York. Vi rimase a lungo, fin quando diventò lui stesso scrittore.
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