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Barbara Palombelli per "Il Foglio"
Ha ragione lui, Michele Santoro. In un paio di interviste rilasciate per lanciare la nuova stagione di "Servizio Pubblico" ha preso affettuosamente in giro il plotone di quarantenni appena scesi in campo come suoi potenziali eredi. Si moltiplicano i conduttori di prime serate tv: aumenta la concorrenza? Macché. Per ora, Michele può stare tranquillo. Il successore ancora non si vede all'orizzonte.
Nessuno sembra avere - udite udite - la sua apertura mentale. Mi spiego subito. Al suo debutto - 26 anni fa - ero presente. La trasmissione, poi diventata oggetto di un culto persino eccessivo, l'avevano messa su due direttori niente male: Angelo Guglielmi e Sandro Curzi (ci manchi, Sandrone).
Si chiamava "Samarcanda", nome pretenzioso ma certo non banale. Santoro, allora in conduzione con Giovanni Mantovani, era umile. Chiedeva, consultava, studiava, si informava - io allora inseguivo politici a Montecitorio praticamente dodici ore al giorno - e soprattutto taceva quando noi ospiti fissi interrogavamo il leader di turno.
C'erano Valentino Parlato, Mauro Paissan, c'era uno studio che somigliava in piccolo a quello di oggi: colori scuri, clima cupo, primi piani accentuati. Il futuro domatore di circhi mediatici - l'unico in Italia che abbia frequentato oltre ai tre gruppi generalisti, Rai, Mediaset e La7, il web e le tv locali associate - adorava la pluralità , la sparigliava e la valorizzava.
I nuovissimi aspiranti hanno un altro stile. Acchiappano primi piani, azzannano microfoni, giocano da solisti assoluti. Mai dividerebbero con altri la sovranità dello studio tv. Michele no, tiene sul trono accanto a lui l'unico che potrebbe davvero essere il suo alterego: Marco Travaglio.
Si è messo in società con il potenziale avversario: diabolico ma efficace. Intanto, gioca e lancia giovani come Beatrice Borromeo e Giulia Innocenzi, ospita cronisti economici che la sanno più lunga di lui, ha trasformato Vauro Senesi da vignettista a consumato showman. Fin dagli esordi, la sua forza consiste nel non giocare da solo.
Il potere prevede un piccolo esercito e lui ne ha sempre costruiti con i suoi, da Ruotolo a Formigli, fino ai giovanissimi di oggi. I giovanotti di oggi, purtroppo, hanno fretta: non hanno dubbi, non coltivano il dono della semplicità , non sanno che farsene di una squadra. Dovrebbero rivedere una dozzina di puntate di "Samarcanda", come cura contro l'ego arroventato dalla lucina rossa della telecamera. Ne uscirebbero sicuramente guariti.
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