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Leora Tanenbaum per “Salon”
Prima dei social media, non esisteva ambiguità quando qualcuno chiamava “puttana” una ragazza. Lei sapeva di essere stata insultata, bullizzata, molestata.
Ma oggi “slut”, puttana appunto, è il modo in cui ci si saluta fra amiche. E’ come dire “ciao”. “Puttana” oggi è una specie di complimento che si fa a una donna di bell’aspetto. E’ anche un termine comunemente usato sui social.
Georgiana, dottoranda in letterature comparate, spiega che le sue colleghe si salutano così su “Facebook”, non fanno eccezione solo perché stanno seguendo un percorso accademico. Si “sessualizzano”, nelle parole come nelle foto, per attirare l’attenzione di utenti maschi e femmine. I commenti mostrano gradimento, i “like” aumentano, e loro si sentono “convalidate”, ricompensate.
Anche gli uomini mostrano volentieri il proprio corpo. Si fanno foto di tatuaggi e addominali, ma per scelta. Non sono obbligati. In realtà l’unica cosa che devono fare è mettere un “Mi piace” alla foto di una ragazza o commentare, perché è più importante far parte di questo gioco, è più importante mostrare di “seguire” le ragazze hot che “essere” hot.
“Facebook”, “Twitter” e “Instagram” invece insegnano alle ragazze che otterranno uno status e saranno ricompensate solo se si rendono “sessuali” e se si fanno chiamare puttane. Loro vengono giudicate per l’aspetto fisico, i maschi vengono giudicati per l’apprezzamento del corpo femminile. Più sei chiamata puttana, più il tuo status si rafforza.
Ma a quale costo? E come si fa a distinguere quando il termine indica un complimento o un insulto? E’ un’etichetta accettata fra gli amici, affettuosa. Traduzione: sei una puttana, il tuo lato sessuale è da ammirare finché non oltrepassi i limiti, e lascio il significato volontariamente ambiguo. Se mi accuserai di insultarti, io negherò.
Le donne si danno reciprocamente delle puttane, ognuna per affermare la propria femminilità. Ma dietro l’apparenza amichevole, esiste un giudizio sessista. Le giovanissime stanno creando un senso di identità, anzi un senso di comunità, riconoscendosi vicendevolmente come persone “sessualizzate”.
Conquistare lo status di “grande puttana” dipende innanzitutto dal giudizio delle altre donne, sono loro che hanno più peso nell’arena. Più dei maschi. Questa reputazione ha senso all’interno di una comunità i cui membri si conformano a una serie di regole. Le nuove tecnologie aiutano a dare le credenziali.
Posti una foto, ti poni sessualmente, le altre ti riconoscono, ed ecco che tutte conquistano lo status di sessualmente attraenti. Siccome “puttana” può essere sinonimo di disgustosa, vergognosa, stronza, allora il saluto sottintende anche “Ti tengo d’occhio, ti monitoro”.
Non è facile comprendere la psicologia di questo insulto-complimento. Perché una parolaccia simile viene addirittura ambita e desiderata? Louis Althusser, filosofo francese marxista, diceva che gli stati capitalisti richiedono un’ideologia, ovvero un sistema di idee e rappresentazioni che sono percepite come naturali ma in realtà sono create apposta per esercitare potere sugli individui e far loro accettare un’autorità.
Ad esempio, quando un poliziotto chiama un passante, quello risponde e si trasforma da individuo autonomo a soggetto che accetta il richiamo di un’autorità. Il meccanismo è lo stesso su internet, ci sono agenti e soggetti. Una ragazza si definisce “puttana” e viene confermata tale da chi la giudica e la monitora.
Siti come “Reddit”, “Tumblr” e “Flickr” incoraggiano ad esporsi al giudizio altrui. “Creepshots.com”, ora chiuso, invitava a postare le foto di donne scattate in luoghi pubblici, senza il loro consenso. Nella pagina introduttiva si leggeva: «Chiediamo cortesemente alle donne di rispettare il nostro diritto di ammirare i loro corpi. Smettetela di lamentarvi».
Sono costantemente sorvegliate, sentono la pressione di mostrarsi su uno schermo. Vivono per esibirsi in questi teatri del web. Non sanno se in quel momento qualcuno le sta guardando, e quindi si comportano come se l’occhio dell’altro fosse sempre puntato su di loro. E’ una specie di auto-sorveglianza, e così si diventa prigionieri di se stessi.
La filosofa femminista Sandra Lee Bartky sostiene che siamo nati maschi e femmine, ma non mascolini e femminili. La femminilità si conquista, è una disciplina che impone delle pratiche per creare un corpo, una forma, una taglia. Ci si controlla la pelle, i capelli, le unghie, si seleziona un guardaroba appropriato. E’ un sistema di subordinazione sessuale, perché a non conformarsi si rischia censura, ostracismo, esclusione.
Oggi è l’estetica della pornografia a determinare l’ideale sessuale. Avere un aspetto sexy significa emulare il più possibile le donne che lavorano nei film per adulti. Le pornostar sono diventate modelli di riferimento. Se agli uomini piacciono, le altre donne si conformano, ed ecco il proliferare di giunoniche tette, capelli color platino e vagine ultradepilate.
La ceretta totale è normale fra le dodicenni, ai centri benessere ci vanno ormai anche bimbe di sette anni. In alcuni centri estetici di New York si consiglia addirittura la depilazione totale sin dai sei anni, per sradicare definitivamente la peluria e “risparmiare i soldi per pagarci piuttosto le tasse al college”. Le adolescenti ricorrono a interventi chirurgici per aumentare il seno, solo nel 2013 negli States lo hanno fatto 3.500 minorenni.
Anche prima di avere il primo ciclo mestruale, le ragazzine si percepiscono come oggetti sessuali che devono risultare gradevoli ai maschi. Lo fanno così tanto che non sono più oggetti sessuali, ma soggetti sessuali. E’ un processo di internalizzazione. Sanno che la loro immagine è importante perché può essere ripresa sempre e dovunque, con o senza consenso.
Decidono allora di liberarsi dalla pressione, proponendosi come esseri consapevoli del proprio corpo. Lo scelgono. Sembra una forma di liberazione ma è una scelta fatta sotto regime di sorveglianza. Non riescono ad essere invisibili e quindi devono apparire perfette sempre, devono sostenere il paragone continuo con altre, e preoccuparsi di come appaiono in ogni momento.
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