DAGOREPORT - È TORNATA RAISET! TRA COLOGNO MONZESE E VIALE MAZZINI C’È UN NUOVO APPEASEMENT E…
Marco Giusti per Dagospia
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Niente. L’Italia non vince proprio nulla e Francia e Asia trionfano. Malgrado i tre film italiani in concorso, le grandi speranze, l’appoggio di papà Scalfari, le palle dell’Aspesi e di Concita De Gregorio, la Palma d’Oro va a un film forte e politico, totalmente antisalviniano come “Deephan” di Jacques Audiard, sulla storia di una tigre Tamil che si scatena nella banlieu parigina a colpi di machete, mentre il premio per la Miglior Regia va al capolavoro di Hou Hsiao Hsien, “The Assasin”, geniale rivisitazione del cinema di spade, ogni inquadratura una pugnalata. Non solo.
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Il Grand Prix de la Jurie va a un’opera prima come “The Son of Saul” dell’ungherese Laszlo Nemes, allievo di Bela Tarr, che si inventa un linguaggio e racconta con una forza spaventosa una giornata nell’inferno di un lager, un film incredibile che non poteva non colpire i Coen.
I francesi vincono ancora con Vincent Lindon come miglior attore protagonista del serissimo “La loi du marché” di Stephane Brizé, notevole film sul crollo della piccola borghesia francese e sulla sua classe operaia, e con l’ex-aequo, assieme a Rooney Mara per “Carol” di Tod Haynes, per la migliore attrice protagonista, di Emanuelle Bercot, eroina di “Mon Roi” di Maiween, donna non bella e non giovanissima che si innamora del bellimbusto Vincent Cassel.
Piangono tutti. Piange a dirotto Emanuelle Bercot che riceve un premio che credo proprio non pensasse di poter vincere contro le attrici di “Carol”. Piange Lindon, pieno di tic, che fa un lunghissimo discorso politico. Non piange Rooney Mara, perché non c’è. Al suo posto arriva Tod Haynes a prendere il premio. Premio speciale al solo film che ci parla dell’orrore della globalizzazione di questa Europa, cioè “Lobster”, diretto da un regista greco, Yorgos Lanthinos, ma girato in Irlanda, con uno stile asciutto e innovativo.
Miglior sceneggiatura, invece, al messicano Michel Franco, regista, sceneggiatore e produttore di “Chronic” con Tim Roth, un buon secondo film triste, ma molto asciutto alla Hanecke. La Camera d’Or per la migliore opera prima va infine a "La Tierra y la Sombre," Directed by Cesar Acevedo.
I nostri film, malgrado gli inutili squilli di tromba dei nostri giornali, malgrado l’inutile cronometrare dei minuti d’applausi, 10-15-17 (ce li giochiamo…), che ci raccontavano una cronaca non completamente vera delle giornate di Cannes, visto che alle proiezioni dei critici non c’erano proprio stati questi applausi, vanno via davvero malconci. Nemmeno un premietto di consolazione, che si pensava arrivasse a Nanni Moretti.
E non ci fa una bellissima figura Dario Franceschini in mezzo alla platea (magari lo potevano avvisare). Ancora più malconcia va via gran parte della nostra stampa, che ha esagerato e gigantizzato dove c’era da essere oggettivi e neutrali, che ha visto capolavori e figli di Fellini e Pasolini dove non c’erano, che non ha voluto ascoltare nessuna critica e ha bollato chiunque non fosse d’accordo di frustrazione e rosicumi vari.
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E che ha scambiato il cinema per un territorio calcistico dove si deve comunque vincere. Anche se di buono ci sono spesso solo le intenzioni, e a volte neanche quelle. La verità è che quest’anno Cannes è stato un festival modesto, dove hanno brillato i grandi maestri orientali fuori e dentro il concorso, da Hou Hsiao Hsien a Jia Zhang Ke, da Naomi Kawase a Kore Eda, da Apitchapong Weerasetakul a Kiyoshi Kurosawa, dove ci hanno colpito i pochi film politici, come “La loi du marché” e un bel po’ anche “Deephan”, e i pochi registi che avevano in testa un linguaggio nuovo, penso a Laszlo Nemes, a Yorgos Lanthinos e, alla Quinzaine des Realisateurs, a Miguel Gomes, che ci ha dato un’opera grandiosa e politica come “Arabian Nights”.
I nostri tre film non solo non erano per nulla contemporanei, anche se di immigrati e di crisi magari ne sappiamo qualcosa anche più dei francesi, ma non erano neanche del tutto riusciti. Il più compatto, cioè “Mia madre” di Nanni Moretti, era anche il più antico come stile e tema, il più coraggioso e interessante, cioè “Il racconto dei racconti” di Matteo Garrone, era anche il più fragile nella costruzione del racconto, quello che doveva essere il più forte e il più sicuro sulla carta, cioè “Youth” di Paolo Sorrentino, offriva grandi prove d’attore a Michael Caine e a Harvey Keitel, ma si perdeva in qualche estetismo di troppo che una giuria come questa non poteva perdonare.
Un po’ aveva ragione Serge Kaganski di “Les Inrock” che, quando abbiamo visto il film di Hou Hsia Hsien, con i suoi colori pazzeschi e la sua complessità figurativa, sembrava di aver davanti un Rembrandt di fronte a tanti estetismi inutili e a molte croste. E aveva ragione anche Manhola Dargis sul “New York Times” a scrivere che “buono a volte non è abbastanza” per questo tipo di cinema.
Purtroppo Cannes, a differenza degli Oscar, esalta un film proprio per la sua costruzione autoriale quasi matematica, per la sua perfezione linguistica, o per la sua novità o per un suo peso contemporaneo, tutti gli eccessi e gli estetismi, insomma, vengono puniti. A volte, purtroppo, i giurati ci sono cascati di fronte alle trombonate di Terrence Malick, o di fronte al finto Cechov di Nuri Bilgen Ceylan, che non è però mai estetizzante, ma non ci sembra che né i Coen, né Xavier Dolan né Guillermo Del Toro siano giurati così fragili o facciano film dalle troppe concessioni poetiche o inutilmente estetizzanti.
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In questo contesto di serietà poteva andare bene, si dirà, un film come “Mia madre” di Nanni Moretti, e infatti me lo sarei aspettato tra i premiati, che certo è un film che ha toccato profondamente i critici sessantenni, ma non ha purtroppo né una forza politica, né una messa in scena innovativa e non riesce neanche a rompere uno dei celebri schemi morettiani (magari è anche un pregio, alla fine).
O ci poteva stare un premio a Garrone per il suo desiderio di far qualcosa di diverso, come un fantasy d’autore. Ma non era poi possibile paragonarlo a un avventuroso così più forte e profondo come “The Assassin” di Hou Hsia Hsien. Diciamo anche che la vittoria francese è un’abile mossa dei Coen per rilanciare Cannes e l’apertura all’Asia segna la strada per un cinema internazionale che è ormai molto indirizzato verso i mercati orientali.
Certo, un premio a un film cinese, oltre che trionfo personale del mandarino de Roma Marco Muller, non fa certo male né a Cannes né all’industria del cinema francese. Come non fanno male i premi ai due film politici francesi, che almeno osano raccontare la realtà che stiamo tutti vivendo.
Alla fine di una giornata complessa e piena di notizie contrastanti, Nanni parte?, è partito da Monteverde?, è già tornato?, e Sorrentino è già a Cannes?, e chi ha vinto, e noi nulla?, ma proprio nulla?, e mo’ Concita che scrive?, complotto?, ignobilmente snobbati? aiuto!, ci ritroviamo abbastanza soddisfatti per le scelte della giuria di questa edizione di Cannes.
Avremmo preferito la Palma d’Oro a Hou Hsiao Hsien, certo. E qualcosa, forse, ce la potevano dare, ma già così, con tre film in concorso che ci faranno ancora discutere a lungo, va bene. Ricordo che ci sono stati anni che avevamo un film italiano sperduto in concorso e uno a “Un Certain Regard”.
hou hsiao hsien, “the assassin” the assassin
Purtroppo neanche il nostro Roberto Minervini, che presentava quest’anno proprio a “Un Certain Regard” il suo nuovo documentario, “The Other Side”, ha vinto nulla. I premi maggiori sono andati all’islandese “Rams” Grimur Hakonarson, a “Sole di piombo” del croato Dalibor Matanic e a “Verso l’altra riva” di Kiyoshi Kurosawa. A parte Kurosawa, premiato per la miglior regia, non sono grandissime scelte.
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