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Marianne Ihlen e Leonard Cohen
Giuseppe Videtti per “la Repubblica”
Bambole, intellettuali, avventuriere, dive, seduttrici. Fragili, sbandate, ambiziose, ingenue, opportuniste. Non tutte le muse del rock sono schive e aristocratiche come Marianne Ihlen, che pochi giorni fa Leonard Cohen ha accompagnato nell' ultimo viaggio con parole non meno toccanti delle liriche che in gioventù le aveva dedicato ( Bird on the wire e So long, Marianne).
E neanche discrete come la Suzanne della celebre canzone, di cui per anni non è stata neanche rivelata l' identità (Suzanne Verdal, ballerina, moglie dello scultore Armand Vaillancourt, con la quale il cantautore canadese non ebbe più di un rapporto platonico). Non c' è neanche da aspettarsi che tutti abbiano avuto con le loro sirene rapporti di sublime intensità come quelli di Cohen, poeta e gentiluomo, prima che uomo di spettacolo. I rocker sprigionano fiamme avvolgenti, quella luce, quel calore, sono un richiamo irresistibile per le falene.
Qualcuna si è avvicinata troppo ed è finita divorata dal fuoco, qualcun'altra si è bruciata le ali ed è rimasta a terra, solo poche, psicologicamente e culturalmente attrezzate, hanno resistito al calore - e in qualche caso domato l' incendio.
Ci riuscì la prepotente mamma di Elvis, quando il rock era un morbo sconosciuto e nessuno aveva ancora maturato anticorpi. Ma Gladys morì ancor giovane di epatite, e Edipo non riuscì a salvare il re del rock'n'roll. John Lennon non sarebbe stato lo stesso Beatle senza la sua Yoko Ono, brutta, sgraziata e con una insopportabile voce gracchiante, ma perfettamente in grado di ammortizzare le micidiali disfunzioni dello star system (certamente meglio di Pamera Courson, "vittima" di Jim Morrison, o Nancy Spungen, bruciata all' inferno con Sid Vicious).
Yoko non l' avrebbe spuntata né con Mick Jagger né con Keith Richards, trasgressivi ma non fragili come John. Le loro muse, Marianne Faithfull e Anita Pallenberg, finirono macinate nel tritatutto degli Stones. Ognuna ne uscì con le sue cicatrici: la prima a cantare in eterno gli sfregi del malamore (come Nico nel dopo- Velvet Underground); la seconda abbandonata per ingordigia d' eroina, insopportabile anche per un consumatore accanito come Keith.
marianne faithfull BY GERED MANKOVITZ
Ne uscì alla grande Pattie Boyd, top model e fotografa, che Eric Clapton rubò a George Harrison: da entrambiebbe il massimo, immortalata in tre capolavori da ogni marito: Something, I need you, For you blue; Wonderful tonight, Layla, Bell bottom blues (un privilegio che non ha avuto neanche Kate Moss, fatalmente attratta da stramaledetti del rock come Pete Doherty per ricevere melodie in cambio d' amore; avrebbe dovuto prendere esempio da Jane Birkin per gestire con giuste dosi di follia e giudizio i suoi "Gainsbourg").
Non deve averla presa bene Carla Bruni, che né da Clapton né da Jagger ha avuto una sola nota, costretta a far rotta verso l'alta finanza e i vertici del potere. Solo Bob Dylan è riuscito a sublimare le sue muse con la stessa discrezione e la stessa grazia di Cohen: Karen Dalton (Katie' s been gone), Suze Rotolo ( Don' t think twice, it' s all right), Edie Sedgwick ( Leopard- skin pill- box hat), Sara Lownds ( Sad eyed lady of the lowlands, Sara). Ma qui parliamo di sentimenti alti. Per dirla con Leonard, che della profana sacralità del sesso ne sa più di tutti: "È di amore che siamo fatti / E nell' amore ci perdiamo".
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