COME MAI ALLA DUCETTA È PARTITO L’EMBOLO CONTRO PRODI? PERCHÉ IL PROF HA MESSO IL DITONE NELLA…
Francesco Specchia per "Libero quotidiano"
«Soltanto un giornalista». Quando mio figlio Gregorio Indro (sì l'ho chiamato così, e appena ha cominciato a leggere, gli ho fornito la mia copia autografata de «Il generale Della Rovere») mi chiese per la prima volta chi fosse Indro Montanelli risposi con l'incisione che il Maestro invocava, vezzosamente, sopra la sua lapide. Soltanto un giornalista.
Credo sia un dovere morale richiamare, a intervalli regolari, come un mantra, il Vecchio Cilindro. Il suo ricordo dev'essere un fuoco in grado di ardere in ogni occasione, un memento professionale, una botta etica che arriva quando l'abisso italiano di questo mestiere cerca d'ingoiarti. Diciamo che per me è un rito.
Ogni volta che esce un libro sul vecchio Cilindro occorre porgerlo alle generazioni future, anche se non si è Shakespeare, Foscolo o E.L. Master, pensando al fatto che qualcosa resterà. Mio figlio, di anni nove, mi odia. Perché ora ci sono due scuse per perpetuare la liturgia. Una lettera e un libro.
La prima è una missiva inedita di Montanelli datata 30 ottobre 1973, indirizzata all'amico Giovanni Spadolini e pubblicata ora dal Giorno (ripresa a sua volta dalla rivista Nuova Antologia, diretta dallo storico Cosimo Ceccuti). Si tratta di un foglio in cui il giornalista ricostruisce in maniera minuziosa gli eventi e i passaggi dell'interruzione del suo lungo rapporto, avvenuto il 17 dello stesso mese, con il Corriere della Sera, protrattosi per quarant' anni.
«Caro Giovanni, mi vorrebbero ramingo coi campanelli come i lebbrosi del Medio Evo», scrive Montanelli (1909-2001) citando il suo direttore Piero Ottone in procinto di licenziarlo. «Quando mi volto è già sprofondato in una poltrona col viso inondato di lacrime (vere!) mi dice: "Se avessi saputo di dover affrontare un giorno come questo, non avrei accettato la direzione del Corriere, è il giorno più amaro della mia vita"».
giulia maria crespi piero ottone
VERITÀ AMARA
Poi Indro scoprirà che era stato proprio Ottone, in accordo con Giulia Maria Crespi, proprietaria del Corrierone, dai salotti della sinistra radical chic vicina agli ambienti eversivi, a volerlo metaforicamente morto. Infatti, non gli concesse nemmeno l'onore delle armi dell'articolo di commiato ai lettori. Il giorno dopo - resoconta sempre Montanelli a Spadolini - chiama Arrigo Levi, direttore de La Stampa, per invitare Indro a collaborare al quotidiano torinese.
Montanelli dubita che la proprietà de La Stampa (Agnelli, appunto) veda con favore l'offerta del direttore: «Gli dico che fa un passo falso perché ho tutti i motivi di ritenere che il suo padrone non approverà. Mi risponde che, come direttore, è lui che assume e licenzia, ma che comunque accerterà».
Dopo solo mezz' ora arriva da Levi la conferma: l'Avvocato è ben lieto dell'invito e pochi minuti dopo egli stesso chiama al telefono Montanelli per dargli il benvenuto a La Stampa. Aggiunge Indro: «Ci fu un diverbio fra Ottone e Levi». Il primo si lamentò che l'assunzione «fosse un atto sleale. Levi rispose: non ve l'ho portato via, siete voi che l'avete buttato sul lastrico. Dovevo lasciarcelo un giornalista come Montanelli?».
Nella lettera - conservata nelle carte personali di Spadolini- trapela per la prima volta il retroscena dettagliato di una storia nota; Montanelli con la sua «insolente capacità di scrittura» descrive gli sguardi dei colleghi che lo tengono vilmente a distanza di sicurezza; cita la coraggiosa solidarietà del caporedattore Di Bella, che poi diverrà anch'egli direttore dopo Ottone; fotografa il suo arrivo alla Stampa, sul tappetino rosso.
E fu proprio in quest' interregno da esiliato che Indro progettò la sua vendetta: la fondazione del Giornale Nuovo. E qui subentra il secondo atto della liturgia. Ossia l'uscita di Montanelli e il suo Giornale (Albatros, pp 233, euro 14,90 con prefazioni di Barbara Alberti e Francesco Giubilei) saggio a firma di Federico Bini che ripercorre una straordinaria stagione italiana iniziata il 25 giugno 1974, quella del Giornale. Partendo, quindi, sempre dalla figura di Montanelli, Bini ricostruisce la storia del quotidiano nato dalla vendetta attraverso le vite dei protagonisti.
Dalle pagine emergono testimonianze di grandi giornalisti ognuno interprete di un montanellismo di ritorno. Tra di essi Livio Caputo, Pasolini Zanelli, Tiziana Abate, Giancarlo Mazzuca, Roberto Crespi, Fedele Confalonieri, Roberto Gervaso, Vittorio Feltri, Maurizio Belpietro, Paolo Guzzanti, Giancarlo Perna, Pietrangelo Buttafuoco, Marcello Veneziani, Alessandro Sallusti.
Bini è giovane ma possiede un gusto per i talenti antichi. Ed è in grado di far riemergere ricordi leggendari per noi lettori della prim' ora. Gian Galeazzo Biazzi Vergani che ricorda Indro correggere i pezzi di Guido Piovene; Enzo Bettiza che faceva fuoriuscire diversi intellettuali da via Solferino per riversali nel nuovo giornale; Egisto Corradi che parlava il parmigiano per non farsi intercettare dai tedeschi in guerra. Dice Feltri: «Ho sempre cercato di leggere quelli bravi per tentare di rubare qualcosa. Montanelli è il numero uno. Mentre quella che ho stimato più di tutti è stata Oriana Fallaci». Soltanto un giornalista.
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