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Andrea Scanzi per “Il Fatto Quotidiano”
Non è soltanto la qualità di recitazioni e sceneggiature a spiegare il successo delle serie tivù. C’è anche lo sdoganamento definitivo, talora quasi ostentato, del politicamente scorretto. In Italia, fatte salve lodevoli eccezioni come Romanzo Criminale e Gomorra, impera ancora la fiction buonista: la storia edificante, tanto improbabile quanto rassicurante.
Negli Stati Uniti, e non solo lì, al centro della scena c’è invece il cattivo così respingente da risultare fatalmente affascinante. L’esempio più facile è House of Cards, che il presidente del Consiglio ha detto di utilizzare quasi come vademecum strategico (non un bel segnale per l’Italia: il protagonista, Frank Underwood, è una carogna senza pari).
Ci sono però tanti altri casi. In primo luogo, la serie tivù – quella migliore – ha saputo giocare da sempre sul chiaroscuro: sul buono che non lo è mai fino in fondo, sul cattivo che non lo è mai interamente. Sin da Twin Peaks, apripista della nuova narrazione sul piccolo schermo, è il dubbio a caratterizzare la storia. La sfumatura, il non detto. A colpire lo spettatore non sono tanto i personaggi manifestamente positivi, quanto chi è sfaccettato e possibilmente inquietante.
Di Lost, altra serie-mito, ammaliava più di tutti l’ineffabile Ben Linus, capace di passare dal gesto più atroce all’apertura meno prevedibile. Non è soltanto il fascino del male, quanto la capacità di raccontare – avvincendo, creando dipendenza, alimentando l’immedesimazione – l’ineluttabilità della immoralità latente. L’errore quotidiano, l’inciampo esistenziale. La tentazione, la corruzione: la naturale corruttibilità dell’animo umano, che conduce allo sbaglio destinato a macerarti in eterno. Fino a trasformare il personaggio in una “gramigna umana” che uccide tutto ciò che tocca, anzitutto ciò che più ha di caro.
true detective matthew mcconaughey
Quel che accade a Jack Bauer, protagonista di 24 (nove stagioni), che ha coinciso con un ulteriore innalzamento dell’asticella qualitativa . Col passare degli anni la serie è diventata sempre meno autoconclusiva (CSI, Dottor House) e sempre più profetica. In grado non solo di raccontare, ma anche di prevedere la realtà: quando in 24 comparve un presidente di colore sembrò un azzardo, poi però Barack Obama è stato eletto davvero.
Oggi la serie tivù si configura come un mega-romanzo a puntate, con l’ambizione neanche troppo latente dell’epica. Ulteriori step hanno coinciso con l’arrivo di serie spesso partite in sordina e divenute giustamente di culto. In molte di esse fatichi a trovare personaggi minimamente edificanti, a meno che non sia da ritenersi lodevole il personaggio che ha ucciso “soltanto” tre persone a fronte della media di 20 dei compari (The Shield, Sons of Anarchy).
Sono racconti impietosi, che eternano un presente irrimediabilmente compromesso e naturalmente apocalittico, con pochi martiri e troppi carnefici (talora inconsapevoli). A salvarli, e neanche sempre, antieroi scarsamente convinti che la redenzione sia possibile: non c’erano eroi in Revolution, evaporata dopo due stagioni, se non qualche sopravvissuto fatalmente incarognito da un black-out definitivo che – più che togliere luce – aveva spento il senso della morale sul pianeta Terra. Il collante, anche lì, non era tanto la trama quanto le costanti macerazioni del cattivo (con risvolti buoni) Sebastian “Bass” Monroe e del buono (con propaggini efferate) Miles Matheson.
Talora gli Stati Uniti si guardano alle spalle, pure in quel caso per ribadire che il male è irredimibile: nessuno si salva in Heel on Wheels, saga sulla nascita della ferrovia dopo la Guerra di Secessione. Il peccato c’era anche allora, c’è sempre stato e sempre ci sarà.
La serie tivù è uno specchio che mostra il marcio: indugia su di esso con sapienza e sadismo. Chi ancora coltiva un barlume di disillusione tenera è fuorimoda e viene stoppato dopo tre stagioni: chiedere agli autori del lodevole Longmire, silenziati dalla produzione perché l’opera piaceva agli over 45 ma non ai più giovani e dunque era poco vendibile. I capolavori più manifesti degli ultimi anni sono stati Homeland, True Detective, Breaking Bad e Rectify. Cosa li caratterizza? Il livello sovrumano degli attori, la qualità rara della scrittura. E la sostanziale assenza di anime salve.
Ogni redenzione è negata, come pure ogni catarsi. La tivù ha regalato poche figure strepitose come il supremo Heisenberg di Breaking Bad, eppure era un produttore di metanfetamine divenuto strada facendo omicida. Mica un santo, mica un eroe. Sfiorano forse la rettitudine gli amici-nemici della prima stagione di True Detective, saga-blues con i magistrali Matthew McCounaghey e Woody Harrelson, ma le loro sono vite impietosamente prossime al calvario. La serie, ancor più se ispirata, è nichilista e impietosa: spietatamente realista e lucidamente pessimista.
Non addolcisce, ma infierisce. Sparge sale sulle ferite. L’happy end è un anacronismo neanche concepito. E l’ultima puntata non regala necessariamente risposte. Il protagonista di Rectify è innocente o colpevole? Il sergente Brody di Homeland era una spia del terrorismo islamico o (anche e soprattutto) una vittima della vita, destinato a sacrificarla per inseguire uno scampolo di perdono? Impossibile e neanche così importante saperlo, perché è proprio il dubbio inquietante l’architrave della serie tivù. Epica post-contemporanea, tanto irresistibile quanto tremenda.
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