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Marco Giusti per Dagospia
"Il tempo è un grande addensatore", dice a un certo punto il presidente Lincoln, come se fosse il personaggio di una commedia o un dotto saggista. Di fronte ai 150 minuti di questo meraviglioso "Lincoln", magistralmente scritto da Tony Kuschner ("Angels in America", "Munich") per la regia di Steven Spielberg e interpretato da Daniel Day Lewis con una passione e una precisione che non può non stupirci, ci siamo sentiti non poco in difficoltà .
Perché Kushner e Spielberg ci danno più che una lezione di storia o di grande cinema, una lezione di arte politica. L'aver concentrato un tema così forte, Lincoln e l'abolizione dello schiavismo, e un personaggio così importante per la storia americana, nei pochi mesi che passano dalla sua decisione di far passare con ogni mezzo il Tredicesimo Emendamento della Costituzione Americana, quello appunto legato all'abolizione della schiavismo, fino alla sua attuazione, prima della resa dell'esercito Confederato e della fine della Guerra di Secessione, e poi alla morte dello stesso presidente per mano di John Wilkins Booth, è qualcosa di geniale.
Perché concentra in una situazione assolutamente teatrale e energica, tagliando ogni possibilità di trombonismo patriottico spielberghiano, tutto il Lincoln politico e privato addensandolo alla grande storia americana.
Dentro il suo muoversi politico troviamo così la costruzione del personaggio, il rapporto con la famiglia, la moglie Molly, una grande Sally Field, ancora sconvolta per la morte del secondogenito Willy e contraria a mandare il primogenito Robert, Joseph Gordon-Levitt, in guerra, il rapporto con gli uomini del suo governo, a cominciare dal Segretario di Stato, Stuart, il notevole David Strathaim, e del suo partito, anche i repubblicani più conservatori, il rapporto con i radicali, dominati dalla figura di Thaddeus Stevens, un Tommy Lee Jones fantastico con bastone e parrucchino, poi quello con i nemici democratici, assolutamente anti-abolizionisti, infine quello più pesante con una guerra che a quel punto ha già fatto qualcosa come 600.000 morti.
Tony Kushner, entrato nel progetto sei anni fa, dopo due trattamenti che non funzionavano scritti da John Logan e da Paul Webb, visto che l'idea di Spielberg era di ben dodici anni fa, è riuscito a schivare il biopic roboante che un personaggio come Lincoln si sarebbe facilmente attirato e, concentrandosi solo sui meccanismi politici del come Lincoln gestisce miracolosamente i mille traffici, legali e illegali, per far passare l'Emendamento, chiudere subito dopo la guerra e fare voltare pagina per sempre all'America, riesce a strutturare come fosse una commedia concentrato dentro pochi e fortissimi luoghi, la Casa Bianca, il Congresso, le stanze dei figli, la stanza matrimoniale, tutta l'azione.
Quel che viene fuori è un film di grande costruzione, di dialoghi magnifici che rimandano a un inglese ottocentesco, perfetto per un cast così ben scelto, e un imbrigliamento del tema forte così stretto che Spielberg non può sbandare che in poche scene con patriottismi e rimandi all'oggi.
Ogni singola scena, da quella iniziale col presidente seduto alla stazione che parla coi due soldati neri, a quelle magistrali con la moglie con cui dovrà sempre fare i conti, vive per conto proprio, ma è un tassello preciso della struttura di commedia. Kushner si concede solo un po' di divertimento con i tre lestofanti, capitanati da un James Spader poco riconoscibile, che devono corrompere con posti nella pubblica amministrazione venti peones democratici, visto che venti voti sicuri mancano all'attuazione dell'emendamento, tra quelli sicuri che non saranno rieletti.
Kushner e Spielberg sembrano rileggere più che il Lincoln di John Ford con Henry Fonda, "Alba di gloria", i grandi film politici fordiani, come "Il sole splende in alto", mischiandoli con la sapienza moderna dei tvmovies della HBO. La guerra, terribile, si vede solo nella grande scena iniziale, che ci rimanda un po' all'inizio del "Salvate il Soldato Ryan" e in quella finale della dopo la battaglia di Petersburg, Virginia, quando Lincoln si rende conto del massacro.
Il cast è dominato totalmente da Daniel Day Lewis, e difficilmente si può pensare a qualche altro attore nello stesso ruolo, anche se a un certo momento sembrava che potesse interpretarlo Liam Neeson. Tutti i vecchi attori presenti, da Sally Field, che ha ben dieci anni più del suo personaggio, a Tommy Lee Jones, da Hal Holbrook, come vecchio conservatore che si muove per la pace, a Jackie Hearle Haley, il vicepresidente dei Confederati, funzionano meravigliosamente.
E Jared Harris, figlio di Richard Harris, è un ottimo Generale Ulysses S. Grant. Più che giusti i due Golden Globe che ha vinto, per Daniel Day Lewis e le ben 11 Nominations agli Oscar. Con un budget di 65 milioni di dollari, ne ha già recuperati 144. In sala dal 24 gennaio.
Il doppiaggio italiano è molto curato, e poi il film è talmente parlato che vederlo in originale per tre ore è piuttosto rischioso, anche se non ci sembra indovinatissima la scelta di Favino come Daniel Day Lewis e quando riconosciamo in un ruolo minore la voce di Sergio Rubini ci fa lo stesso effetto di come quando sentivamo la voce di Alberto Sordi come trombettiere in "Il massacro di Forte Apache" di John Ford ("Sì signor comandante, so' Apache Mescaleros"). Comunque grande film. Da fare vedere ai politici di casa nostra.
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