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"T’AMO PIO BOWIE" - PARLA LINDSAY KEMP: “CON BOWIE FU AMORE A PRIMA VISTA. VENNE A TROVARMI IN CAMERINO E POI NELLA MIA CASA A SOHO. GLI HO INSEGNATO A MUOVERSI SUL PALCO” - JAGGER? MI MANDO' 101 GIGLI BIANCHI”

KEMPKEMP

Adriano Ercolani per “la Repubblica”

 

Fasciato in un’ampia, raffinatissima veste da camera, ci accoglie con cortesia d’altri tempi. L’eleganza ipnotica del suo eloquio è squisitamente british, pregno di reminiscenze letterarie, facile farsi incantare dai suoi ricordi sempre narrati con fascinoso aplomb.

 

Artista fuori dall’ordinario, Lindsay Kemp ha attraversato ormai quasi cinquant’anni di cultura che da underground è diventata mainstream grazie anche ai suoi “allievi”, da Nureyev a Fellini, da Mick Jagger a Ken Russell. Ma, soprattutto, ha esercitato un’influenza determinante sulla storia del rock: Kate Bush, Peter Gabriel, David Bowie, che più di tutti ha dichiaratamente subìto la sua influenza, sono stati solo alcuni tra i suoi seguaci.

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Lo incontriamo nella sua ultima residenza italiana, nel cuore di Livorno, a pochi passi dal mercato popolare, tra colori, fragranze e incontri multietnici, quasi una quinta vivente del suo immaginario barocco.

 

Kemp, oggi settantaseienne, ha un legame profondo con l’Italia: ha vissuto per anni a Roma (città che ama fin dagli anni Sessanta, quando Fellini veniva a vedere i suoi spettacoli di strada a Piazza Navona), zona Monti, poi è andato a abitare in una chiesa sconsacrata, a Todi, infine si è stabilito nella città toscana dove collabora con il teatro cittadino intitolato a Goldoni. Ogni sua battuta, ogni sfumatura o allusione, è amplificata in modo memorabile dall’incanto continuo della sua mimica facciale e dal giocoso trasformarsi della voce, ora beffarda, ora commossa, ora profonda, toccante.

 

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È reduce dal ritorno sulle scene a Roma e Genova col suo ultimo spettacolo, Kemp Dances Inventions and Reincarnations , antologia che lui però non intende affatto come un commiato di fine carriera: «Sì, è vero, in alcune parti ripropongo dei vecchi pezzi. Ma ogni volta che salgo su un palco è comunque sempre una reinvenzione. Per questo il sottotitolo della produzione è Invenzioni e reincarnazioni: sono lavori che io amo eseguire ma che ogni volta interpreto in maniera differente: raccontano sempre un oggi, non un ieri».

 

Così Kemp ripercorre alcune celebri interpretazioni della sua carriera: il diavolo tentatore ne l’ Histoire du Soldat di Stravinskij, la follia mistica del leggendario Nijinskij, la morte straziante de La Traviata, il volo celeste dell’Angelo, che trascina il pubblico nella sua danza circolare, come un derviscio etereo vestito di trascendenza. Un processo di identificazione nei suoi personaggi e di trasfigurazione che avviene in uno stato quasi di trance: «Tutte le mie lezioni iniziano con un momento di pace e silenzio, una forma di meditazione. E poi la musica. Mi abbandono alla musica, come un albero s’abbandona alla brezza, consentendo alla musica di trasportarti in un altro mondo.

 

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E così improvvisamente… siamo in Giappone! O in Spagna! Spero sempre che in questo stato di trance si liberi quello che García Lorca chiamava il “Duende”, l’altra faccia della luna che è in noi. Io non recito, vivo effettivamente l’esperienza. Come i bambini quando giocano, per loro quella è la realtà. Non recitare, sii te stesso. Se riesci a seguire questo principio, non sei mai ripetitivo. Sei reale».

 

Il rapporto tra realtà e illusione è la dialettica costante e interminabile di un artista che ha fieramente incarnato sulla scena il diverso, l’oltraggioso, l’impossibile. Una serie di reincarnazioni interpretate attraverso la maschera cangiante del suo volto: «Quando mi trucco, dipingo con la mia immaginazione cosa vedo nello specchio, ciò che immagino sul mio volto. Credo sia un po’ come portare all’esterno l’interiorità e portare all’interno ciò che è esterno. Rendere visibile ciò che è invisibile».

 

La casa di Kemp è un museo privato di memorie: magnifici costumi di scena, rarissime locandine di spettacoli consegnati alla storia, volumi e volumi di saggi dedicati alla sua arte, gli scatti del fotografo Guido Harari. Tutto, l’arredo incluso, è testimonianza della sua traboccante personalità e dei suoi innumerevoli ricordi.

 

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La sua più grande scoperta, e l’allievo più famoso dell’artista inglese, è una delle icone fondanti del rock: David Bowie. Celebre la loro storia d’amore, che segnò di fatto l’incontro fra gli artisti che avrebbero reso il glam la cifra stilistica dominante degli anni Settanta: «Bowie venne a vedere un mio spettacolo in un piccolo teatro. Qualcuno mi aveva dato il suo Lp, il giorno prima, quello chiamato proprio David Bowie, dell’etichetta Deram. Mi ricordo la canzone: When I Live My Dream . M’innamorai subito della sua musica, della sua voce. Suonai il disco prima dello show e poi feci la mia entrata in scena. Lui era presente e fu molto lusingato.

 

Venne a trovarmi in camerino, e fu davvero amore a prima vista. Il giorno dopo ci vedemmo nel mio appartamento a Soho e cominciammo subito a pianificare tutto quello che avremmo potuto fare insieme. Si innamorò del mio mondo, rimase incantato soprattutto dal mio Pierrot. Cominciò a venire alle mie lezioni al centro di danza il giorno dopo, e preparammo insieme lo spettacolo Pierrot in Turquoise. La mia storia con Bowie è lunga e drammatica, di solito non amo parlarne. Quando lo faccio la reinvento un po’ come voglio, ricordandomi solo i momenti più belli».

 

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Kemp fu anche la mente del più celebre spettacolo del cantante , Ziggy Stardust. Dopo la fine della loro storia d’amore, Bowie si sposò con Angela “Angie”, cantata anche dai Rolling Stones (celebre coppia aperta, lui ricordò che si conobbero «perché frequentavamo lo stesso ragazzo»), ma mantenne un profondo legame artistico con Kemp.

 

Come lui ben ricorda: «Abbiamo condiviso la stessa passione per la cultura giapponese, in particolare per il teatro Kabuki e Nô. Soprattutto, come lui ha poi riconosciuto, gli ho insegnato a muoversi sul palco. Aveva, certo, una grazia naturale, era favolosamente carismatico e aveva un talento versatile, ma come ballerino non è che si sapesse muovere egregiamente, almeno all’inizio. Una sera in camerino venne sua moglie Angie e mi chiese da parte di Bowie di dirigere Ziggy Stardust . Mi portò il nastro con le canzoni che Bowie avrebbe voluto utilizzare, includendo Waiting for my Man di Lou Reed, le cover di Jacques Brel (che avevamo scoperto insieme), Lady Stardust e molte altre. Mi chiese di dirigere lo spettacolo e di esibirmi, soprattutto, come dire di… assemblarlo. Quello che ho fatto è dare una forma al tutto».

 

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Ma non solo Bowie, anche Kate Bush, Peter Gabriel, Mia Farrow sono stati allievi di Lindsay Kemp. Nel suo camerino si potevano incontrare leggende come Rudolf Nureyev e Mick Jagger: «Nureyev venne a vedere Flowers quando ero a Londra. Diventammo amici e reciproci ammiratori. Venne a moltissimi miei spettacoli. Avevamo tanti progetti insieme, sarei dovuto andare all’Opéra di Parigi per danzare con lui in una serata di gala. Stavamo per mettere in scena Le Spectre de la rose insieme, lui avrebbe interpretato Rose e io la ragazza. Purtroppo non potemmo farlo a causa della sua tragica malattia.

 

Anche Mick Jagger venne a trovarmi durante la prima edizione di Flowers a Londra, nel 1974. Divenne un mio grande ammiratore, e quando ci trasferimmo a Broadway mi mandò un bouquet di centouno gigli bianchi. Almeno credo fossero centouno, ogni volta che racconto questa storia aumento il numero. Alcuni giorni dopo fui intervistato da una rivista importante, e mi feci fotografare mentre abbracciavo quel bouquet. Ho tenuto quei fiori finché non sono completamente appassiti».

 

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Kemp è giocoso, beffardo, teatrale in ogni gesto, magnificamente bugiardo. Eppure, alla sua costante finzione poetica è sottesa una visione profondamente autentica dell’arte: «Nella danza di oggi mi manca troppo spesso il racconto, le emozioni, la comunicazione del rapporto con il pubblico. I veri, grandi, danzatori contemporanei, come Martha Graham, sono in primo luogo grandi cantastorie. Del resto che cos’è l’arte? Per me è dare forma all’emozione per comunicarla al pubblico».

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