RIUSCIRÀ SALVINI A RITROVARE LA FORTUNA POLITICA MISTERIOSAMENTE SCOMPARSA? PER NON PERDERE LA…
Fernando Proietti per www.dagospia.com
“La memoria è un presente che non finisce”, osservò lo scrittore Octavio Paz. Già, la storia (e il ricordo) di Settimio all’Arancio, osteria avviata con dignitosa povertà nel 1971 da Settimio e da sua moglie Delia contemporaneamente con la mia avventura al quotidiano, comunista “il Manifesto” - altrettanto carente di risorse economiche -, continua.
A dispetto della mia frequentazione che da fissa è diventata, ahimè, occasionale (avendo cambiato città); e nonostante gli addii dolorosi prima del capostipite, papà Settimio, e lo scorso giugno di suo figlio, il caro e irrequieto amico Luciano.
roberto d agostino e ferdinando proietti
Con Luciano ho condiviso affetti e “giri della morte” notturni prima che mettesse “la testa a posto” (Delia dixit), sposare la dolce Silvia e mettere al mondo due simpatici gemelli, Leonardo e Gabriele.
Dunque, è passato quasi mezzo secolo dal giorno in cui noi del Manifesto uscimmo affamati dal palazzone dell’Ina di via Tomacelli, sede del giornale, alla ricerca di un posto dove consumare il pranzo. Ma superata la strada trafficata di auto e privi di un filo di Arianna per orientarci, all’improvviso ci ritrovammo nel cuore silenzioso della città-labirinto (Campo Marzio) segnata dal suo andirivieni di vicoli con le sue bottegucce “umide e oscure”. Eravamo nella Roma dell’anima, tanto amata e raccontata dal sublime saggista Giorgio Vigolo.
Appena superato il vociante mercato all’aperto di piazza Monte d’Oro, con le ortolane a tagliuzzare le puntarelle e i carciofi romaneschi da cucinare alla giudia, d’istinto voltammo a sinistra. Giunti al numero 54 di via dell’Arancio entrammo, un po’ diffidenti e curiosi, in quel “buco” di locale che diventerà per tanti di noi una seconda casa-famiglia.
Qui, per la prima volta, incrociammo gli occhi umidi e il sorriso bonario di Settimio che – a prima vista -, mal si conciliavano con lo sguardo, attento e severo, di sua moglie. La signora Delia, come una chioccia amorosa, trotterellava tra la cucina e i pochi tavoli apparecchiati alla buona senza perdere di vista la figliolanza che scorrazzava nel locale: Maretta, Luciano (8 anni…) e Lino (appena dodicenne…) futuro chef; cuore e anima generosa dello sviluppo ordinato della ditta senza mai disperderne la sua anima familiare e i suoi sapori contadini. Luigino, l’ultimo della famiglia Cialfi da Montereale, un paesino ai confini tra il Lazio e l’Abruzzo, ancora doveva nascere. Oggi siamo già alla terza generazione dei “settimi”.
“Questo sarà il nostro Circolo di San Pietro”, si lasciò sfuggire Valentino Parlato tra i fondatori del Manifesto aspirando l’ennesima Gauloise blu. Il suo pensiero era rivolto alla magra paga per tutti noi, 130 mila lire mensili, che ci passava la cooperativa rossa. E scoprimmo poi, che si poteva mangiare pure a credito…
“Quando questo gallo canterà/ Credenza si farà” si poteva leggere ancora negli anni Sessanta sui cartelli appesi in alcune osterie di Trastevere ormai scomparse. Ma Settimio e Delia non rimasero mai col becco asciutto…
I suoi primi clienti abituali una volta scoperta via dell’Arancio - una stradina solitaria e oscura nascosta dall’ombra imponente di Palazzo Ruspoli e Palazzo Borghese -, certo non potevano avere notizia che alla fine dell’Ottocento, proprio lì al numero civico 63 di via dell’Arancio, fu aperta ai bisognosi una delle prime cucine modeste della capitale. Appunto, uno dei Circoli San Pietro, evocato da Valentino, organizzato dai giovani dell’alta società e dalle nobili famiglie romane, pelosamente caritatevoli, per ingraziarsi Pio IX.
A distanza di un secolo (e più) faceva allora anche un certo effetto che tra i clienti abituali (e affezionati) di “Settimio”, ci fosse pure il principe scavezzacollo e sciupafemmine, Dado Ruspoli, che aveva dimora a due passi da “Settimio”.
Del resto anche lui ignaro, che via dell’Arancio raccontava una storia boccaccesca da fargli quasi invidia. All’avvio dell’Ottocento un illustre ospite del suo palazzo, Luigi Bonaparte, s’invaghì di Luigia Mazio, soprannominata l’anticamera del paradiso, che aveva casa (e Luigi, marito geloso), in via dell’Arancio. Il futuro (e audace) imperatore di Francia si camuffò da donna per raggiungere il suo scopo, ma una volta arrivato sull’uscio dell’agognata Luigia invece di una servente si ritrovò suo marito-Otello. E fu costretto a una fuga alla ridolini…
Era soprattutto Dado a deliziarci con le sue avventure artistico-mondane in quella mensa con gli anni sempre più affollata di giornalisti, politici, manager, portaborse, prelati, affaristi, banchieri e gente dello spettacolo. “A Los Angeles una volta una giornalista americana di Vanity Fair mi chiese se lavoravo, ma la lasciai di sale quando gli risposi: ahimè non ne ho il tempo!”, raccontò Dado ridacchiando come un bambino. “Lei principe per chi ha votato al referendum costituzionale su monarchia e Repubblica”, gli chiese una volta un’anziana signora dei quartieri alti convinta di conoscere la bontà della sua risposta. “Per la Repubblica, amica mia!”, la gelò Dado.
Al tavolo “fisso” del napoletano Albino Bacci, vecchio lupo di mare e della finanza (da giovane era stato mozzo sulle navi del comandante di Achille Lauro), tenevano banco il Dio denaro e le donne. Nella seconda saletta aveva casa e ufficio l’avvocatessa Fiorenza Resta.
Tra i fedelissimi non vorrei dimenticare, oltre allo scrittore-sceneggiatore Enrico Vanzina e a sua moglie Federica, il più grande umorista italiano, Marcello Marchesi. Il Signore di mezza età. E neppure le ragazze-coiffeur del vicino istituto di bellezza. O gli operai, sporchi di calce, impegnati a ristrutturare le abitazioni dei nuovi inquilini del centro, serviti a tavola dall’eroico (per pazienza e simpatia), Tiberio, cameriere di lungo corso.
Insomma, senza alcuna gerarchia (o privilegio) le stanze di “Settimio” sembravano rispecchiare la massima del politico-gastronomo Brillant-Savarin:”Il piacere della tavola è di tutte le età, di tutte le condizioni sociali, di tutti i giorni(…) e resta l’ultimo piacere a consolarci della sua perdita”.
A inizio anni Ottanta, intanto, la redazione romana del “Corriere della Sera” aveva traslocato da piazza del Parlamento nell’ex Sede dell’Unione Militare sempre in via Tomacelli. Con la politica e lo sport a farla da padrona. E con il povero Luciano, impegnato tra la cassa e i tavoli, a conservare in un cassettino le nostre ricevute di novelli Bel Ami da allegare alle note spese rimborsabili dal giornale...
Già, Settimio e via dell’Arancio. “La città non dice il suo passato, lo contiene come le linee di una mano, scritto negli spigoli delle vie (…) nelle aste delle bandiere”, racconta Italo Calvino nelle sue “Le città invisibili”.
Dopo tanti anni quando riaffiorano i ricordi, anche il luogo dell’anima, aggiunge il filosofo James Hillman, “parla di sé allo stesso modo dell’anima delle persone”. Allora, non potrei mai immaginare che l’insegna di “Settimio” possa essere esposta in un posto lontano da via dell’Arancio.
Qui, tra l’altro, nonna Delia, la figlia Maretta e la famiglia di Lino e Lina hanno edificato casa e bottega. Un piccolo monumento alla ristorazione d’antan.
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