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Alessandro Pagnini per il Domenicale del Sole 24 Ore
Sul calcio è stato sempre posato un occhio giudice, per lo più sociologico. Il calcio è razionalizzazione emotiva della vita sociale, serve a dominare le passioni, a favorire l'autocontrollo, a ridurre le tensioni. In quanto tale è rito, è pratica liturgica (Pasolini ardì la provocazione che «il calcio è l'ultima rappresentazione sacra del nostro tempo... l'unica rimastaci»).
Oppure, per l'etologo, il calcio è epitome di comportamenti un tempo essenziali alla sopravvivenza, una specie di metafora della guerra o della caccia, memoria di un trascorso non più funzionale alla specie (almeno lo si vuol credere), ma di cui resta la ripetizione simbolica, l'espressione di una radice tribale, di un passaggio iniziatico che prepara alla vita insegnando all'uomo strategie, tattiche, cooperazione, inseguimenti, resistenza, invenzione, sangue freddo, mira.
Ma il calcio è anche poesia. Il poeta e critico inglese Wystan Hugh Auden lo catalogò tra i «giochi competitivi innocenti», quelli che nel fare senza necessità qualcosa di assolutamente arbitrario, in un certo senso contro natura (e contro, dunque, quello che insegna la lettura etologica), nell'esaltare una sorta di gideano atto gratuito, consente all'uomo di affrancarsi dall'ordine delle cose, di sfregiare il disegno divino, di sottrarsi alla meccanicità e ripetitività della vita, per instaurare uno spazio e un tempo fittizi in cui affermare autonomamente se stessi.
Il teologo tedesco Bernhard Welte (Filosofia del calcio, Morcelliana,), sulla stessa linea di Auden e facendo sua l'interpretazione "terapeutica" del gioco di Eugen Fink, parla del calcio come di «un'oasi dell'eternità », una sorta di estasi che ci regala una redenzione temporanea, che ci fa dimenticare la storia e ci rende irresponsabili, ma nella positiva illusione, in quegli atti di pura liberazione dal vincolo del reale, di aver anticipato escatologicamente (nientemeno) il regno di Dio.
Matassi conosce tutte queste cose e in buona parte le condivide. Ma decide di sovvertire quello sguardo verticale che fa sì che vi sia una posizione privilegiata, della scienza o della filosofia, che rende genitivo soggettivo il calcio in un'espressione come "filosofia del calcio". Mentre lui, qui simpatetico con una certa forma di popsophia, vuole che sia il calcio il soggetto che parla filosoficamente e che addirittura mette in discussione gli assunti della filosofia stessa.
Per esempio, un'etica principialista e deontologica ci porterebbe a condannare senza appello il caso recente dei tifosi del Genoa che hanno umiliato i loro giocatori obbligandoli pubblicamente al gesto simbolico della restituzione della maglia. Ma quell'atteggiamento di appartenenza che richiede un sacrificio ancestrale, quella manifestazione estrema di fede laica, è forse più aderente ai valori in gioco, nell'enclave del calcio, di quanto non lo sia il moralismo di chi condanna dall'esterno.
La conclusione di Matassi è che il calcio esige amore-passione, quell'amore eroico «che non potrà mai essere istituzionalizzato» e che la modernità ha perduto, avendolo isterilito in una cultura di emozioni delegate, deprivate di spontaneità , socialmente controllate (interessanti, a proposito, le considerazioni sull'odierno conflitto tra etica pubblica e quella che sulla scia di Goethe-Heidegger-Bourdieu Matassi chiama "etica terapeutica").
Ma il calcio non ci parla solo di morale. Ci parla anche di estetica e di gnoseologia. E qui Hegel ha da insegnare a tecnici e critici del calcio, teorizzando il primato del tutto sulle parti, l'idea che il gioco (come lo Stato nella sua filosofia del diritto), pur non avendo una priorità cronologica, seriale, sia un telos cui tendono i momenti componenti. L'analogia con la visione metafisica olistica di Hegel risulta perfetta: «la squadra viene prima degli undici giocatori» (è dell'allenatore, dunque, la missione più importante).
E c'è di più. Come insegna il tecnico-filosofo Josè Mourinho, che Matassi vede ispirato da Simmel e da Bergson, le stesse motivazioni della squadra vanno oltre le competenze individuali e collettive e hanno un loro primato, quasi trascendentale, il cui senso generalista-dialettico è icasticamente espresso da un motto di Mourinho: «Chi sa solo di calcio, non sa niente di calcio» (vedi Sandro Modeo, L'alieno Mourinho, Isbn Edizioni, pagg. 192 ⬠13,50).
Il calcio, come si è detto, ha anche un suo spazio e un suo tempo. Allo spazio del calcio accenna Elias Canetti in «Massa e potere», suggerendo l'immagine dell'arena che volta le spalle alla città , isolando una vita volutamente alterata e autoreferenziale; «una massa chiusa verso l'esterno e in se stessa», che interrompe in una scarica energetica verso l'interno e in una sia pur momentanea autoreclusione il rapporto di dipendenza dal potere.
Lo stesso si dica, alla Auden, della sospensione del tempo, con un'efficace analogia con la musica: «musica e calcio postulano entrambi l'innocenza della trasgressione, una innocenza che si limita a violare l'ordine temporale costituito».
E qui è chiaro il debito di Matassi all'estetica, che è appunto anche etica e gnoseologia, di Adorno. Se musica e calcio sono analoghi è nel senso adorniano di "autonomia dell'arte", che non vuol dire astoricità o assoluto svincolo dell'arte da ogni rapporto con la società , ma affermazione di un suo piano di esistenza che sfugge a un determinismo socio-economico anche se, a seconda del momento storico-sociale, può confliggere col reale empirico e rivelarne criticamente le contraddizioni o può esserne essa stessa (ma non per una necessità ineludibile) espressione e strumento.
Purtroppo l'autonomia e la purezza del calcio, come forse la sua innocenza e «il suo esito redentivo», oggi, in un'epoca di nihilismo economicistico e di degenerazione feticistica, sono assai dubbi. Questo il filosofo serio non può non denunciarlo; anche se il richiamo di quella "trasgressione" per lui resta forte e sempre più impudicamente confessata.
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