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Lettera di Giampiero Mughini a Dagospia
Caro Dago, qualche giorno fa ho avuto come un soprassalto a trovare su un giornale la foto di Claudio Rinaldi – quel suo volto a metà tra un Gesù Cristo e un bandito, di cui dicevano i suoi amici – che accompagnava la notizia dell’imminente uscita (postuma) di un suo romanzo, “Ultimo volo della sera”.
Claudio (nato nel 1946, morto il 4 luglio 2007) è stato il più grande direttore di giornali della mia generazione, da quando nel 1980, trentaquattrenne, divenne direttore dell’ “Europeo” che era stato modellato dal suo maestro Lamberto Sechi e che era un bellissimo giornale anche se vendeva soltanto 120mila copie. Fece talmente bene il suo lavoro che nel 1985 venne chiamato a dirigere la corazzata dei newsmagazine italiani, quel “Panorama” che lui portò a vendere fino a 200mila copie più del concorrente “L’Espresso”.
Una mattina del settembre 1987 mi telefonò a offrirmi una contratto da inviato speciale del suo giornale. Per la seconda volta era il mio direttore. La sua lealtà professionale e intellettuale era totale. Se ti diceva sì era un sì (“Di quante pagine hai bisogno”), se ti diceva un no era un no. Se ti chiedeva un pezzo, te lo diceva a puntino quel che tu dovevi spremere dal limone del racconto.
Non che io condividessi al cento per cento tutti i suoi furori giornalistici, a cominciare dal fatto che settimana dopo settimana Claudio mirava, puntava e assassinava (giornalisticamente parlando) Silvio Berlusconi, che pure era il Berlusconi migliore, quello che aveva creato dal nulla l’impero della televisione commerciale e che predicava da mane a sera la necessità di una rivoluzione liberale. (A giudicare da come sono poi andate le cose, penserete che Claudio avesse ragione al cento per cento. A tutt’oggi non ne sono convinto.) Nel 1990, quando Berlusconi divenne l’azionista di maggioranza della Mondadori proprietaria di “Panorama”, Claudio si dimise da direttore. Lo invitai a pranzo, noi due soli, e parlammo.
CLAUDIO RINALDI EUGENIO SCALFARI
Nel 1991 Carlo De Benedetti lo scelse quale direttore dell’ “Espresso”. Nel frattempo “Panorama”, divenuto un’arma giornalistica in mano al capo di uno dei due schieramenti politici, iniziava la sua lenta decadenza. Forse nemmeno troppo lenta. Nel 1999 Claudio rinunciò alla direzione dell’ “Espresso”. La sclerosi a placche stava accentuando la sua stretta. Gliela avevano diagnosticata nel 1986, la malattia che aveva ucciso Guido Crepax. Una malattia contro cui non c’è scampo.
Quando il morso della malattia si era fatto più aguzzo, nel 1996, Claudio cominciò a scrivere il romanzo che a giorni sarà in libreria. Mi pare di capire che ci abbia lavorato cinque o sei anni, a un tempo in cui persino il battere ai tasti di un computer gli era divenuto gravoso. Lo fece leggere alla moglie, Loredana. Lo fece leggere al suo amico per antonomasia, il suo coetaneo Luciano Pero, quello che era stato con lui studente all’Università Cattolica di Milano e per un tempo militante di Lotta continua, ed è nel giornale di quel “groupuscule” che Claudio aveva iniziato a fare il giornalista.
Lo fece leggere a Lidia Ravera, con cui aveva avuto un’ “affaire” in gioventù. Adesso, a otto anni dalla morte, la Feltrinelli lo manda in libreria. E’ un’opera riuscita e che aggiunge qualcosa a quel che è stato di Claudio e a quel che lui è stato? Forse sì, forse no. Non è una risposta facile.
Le quattrocento cartelle del romanzo, Loredana Rinaldi me le ha mandate con un pony. Le sto leggendo, sono arrivato a poco meno di trecento cartelle, una lettura che per me non è sentimentalmente facile. E’ una sorta di reportage sul suo dolore, su un’agonia lenta ma inesorabile, sul corpo che non risponde più ai comandi, e domani sarà peggio di oggi. Un uomo che pareva fatto di roccia da quanto era solido e risoluto e al quale diventa difficile persino montare su un’auto.
I fantasmi della memoria che si affollano e gracchiano e mentre gli sta diventando insopportabile il “politichese” del giornalismo che pure era stato tutta la sua vita e tutto il suo destino. E le donne le donne le donne, in una sorta di parossismo adolescenziale per il sesso e le sue dinamiche. Le donne, il personaggio ricalcato sulla moglie (con cui Claudio ha avuto un rapporto tanto intenso quanto zigzagante), e quell’altro personaggio femminile, Daria, che è di certo il personaggio più riuscito del racconto.
Daria, la summa del femminile che non c’è e verso il quale ti protendi, e più impossibile e sciagurata è quella summa meglio è. Chi di noi non ha avuto nella sua immaginazione e nel suo desiderio una Daria, o magari più di una? Chi di noi, in fatto di donne, non oscilla tra saggezza (poca) e adolescenzialità (molta)?
Chiamo il libro di Claudio un reportage da quanto ogni volta sono riconoscibili i personaggi, i fatti, i luoghi. Quel 17 maggio 1972 quando spararono due colpi alla testa e alla schiena di Luigi Calabresi. E Claudio abitava in una casa milanese a poche centinaia di metri con sua moglie e con un’altra “compagna”. La quale ultima si danna per un paio di ore a pensare che quell’assassinio è stato organizzato da chissà quale servizio segreto per poi dare addosso agli “idealisti” di Lotta continua.
Smania e urla e telefona per ore, finché non fa una telefonata che la rassicura. Ma no, gli dicono all’altro capo della cornetta, ad avere ucciso Calabresi sono “i nostri”. E lei si tranquillizza.
Quando io litigai con mezzo mondo nel dire che non avevo dubbi che a uccidere Calabresi fosse stato un commando di Lotta continua, Claudio, che conosceva i suoi polli e le loro vicende, fu l’unico a darmi ragione e a scrivere una lettera di protesta al “Corriere della Sera” che nel titolare una sua intervista gli aveva fatto dire il contrario di quello che pensava.
Un anno o poco più prima della morte di Claudio, andammo a trovarlo a casa sua un gruppo di suoi amici, Teresa Eliantonio, Barbara Palombelli, Fabrizio Coisson, non ricordo più se ci fosse anche Toni Pinna. Poi ci rivedemmo nella Chiesa romana di Largo Cairoli, il giorno del funerale. Al microfono di non so più quale televisione dissi che la morte di Claudio segnava la fine della nostra giovinezza, la fine dei nostri anni migliori.
IL COMMISSARIO LUIGI CALABRESI
E anche se non lo avevo ancora capito, nel luglio 2007, che stava per essere messa a morte la Dea della nostra giovinezza, la carta stampata, quel linguaggio di cui Claudio è stato un maestro.
GIAMPIERO MUGHINI
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