FLASH! – ALLARME ROSSO PER LE GRANDI BANCHE AMERICANE, GIA’ LATITANTI ALL’INAUGURAZIONE DELLA…
Mattia Ferraresi per âIl Foglio'
E' da un pezzo che la conversazione sulla crisi dei giornali di carta si è trasformata in un lamento monocorde. Si riservano ai giornali e alla loro irrecuperabile gloria sospiri rassegnati, come quelli che si dedicano ai fenomeni atmosferici e agli eventi lieti di un passato che non tornerà mai più.
Figure classiche nella cerimonia del lutto per la carta sono i vecchi che parlano dei giovani: ormai leggono tutto su internet, non hanno la cultura della carta, s'informano solo su Twitter, non hanno pazienza di leggere articoli lunghi, non hanno nemmeno una vera libreria in salotto e altri luoghi comuni a scelta, fino a completare l'immagine stilizzata di questi nativi digitali, osservati con lo sguardo con cui gli scienziati occidentali guardavano i varani di Komodo. Ma fra questi strani esseri c'è anche chi, contraddicendo la vulgata, si intrattiene ancora con la carta.
E' una specie di analfabetismo internettiano di ritorno, perché il linguaggio primario è quello digitale, dato ovvio che non necessita di riflessione, ma la carta è la locutio secundaria che dà supporto e colore e soddisfazione tattile ai contenuti che meritano di restare. L'analogia musicale è ovvia: se i formati digitali dovevano spazzare via qualunque supporto fisico, com'è che il vinile è vivo e lotta insieme all'mp4? I nativi hanno con la carta rapporti simili a quelli che hanno con i vecchi dischi. Entrambi hanno il loro posto nel mondo. Certo, non si parla di pubblicazioni mainstream e corazzate commerciali senza idee originali o la forza di certi quotidiani globali.
Da molto tempo il modello di business dell'informazione basato sul riassunto cartaceo della conferenza stampa del giorno prima non è un modello, né un business, e neppure è informazione, dato che arriva nelle mani del pubblico quando il pesce è già bell'e incartato e comincia pure a puzzare. Un po' come far precipitare sul lettore titoli da prima pagina sulla tempesta di neve a New York quando ormai c'è il sole e gli uccellini cantano. Per capire l'evoluzione di quel modello di giornalismo il sito da tenere d'occhio, almeno in America, è newspaperdeathwatch. com, un osservatorio del giornalismo di carta che è un incrocio fra un reparto di geriatria e l'obitorio.
E' lì che si tiene il conto di quanti giornali sono morti dall'inzio della crisi, si tengono sotto osservazione i malati gravi e si traggono considerazioni molto amare. I morti seppelliscano i morti, i vivi si cerchino altrove. Per ritrovare segni di fiducia nella carta bisogna esplorare le redazioni di certi periodici nell'area di intersezione fra politica e letteratura, dove il supporto cartaceo non è soltanto legato alle esigenze iconografiche, ma talvolta è squisita dichiarazione d'intenti.
L'underground newyorchese è pieno di giornali che aprono invece di chiudere, start up che mandano bozze in tipografia con abbonati che trepidano nell'attesa della loro copia sulla soglia o lettori occasionali che si baloccano in certe librerie indipendenti con scaffali ricolmi di riviste meravigliosamente curate. E' il racconto della vitalità di un mondo che alla carta non vuole rinunciare, nonostante tutti i luoghi comuni che si possono ripetere e tutte le geremiadi che si possono declamare.
Questo mondo s'agita nella sottocultura ma nemmeno poi troppo, perché nell'epoca della frammentazione, del do it yourself e dell'iperconnettività l'impresa cartacea non ha necessariamente bisogno di numeri faraonici per vivere. E così mentre le prefiche piangono la scomparsa della carta, i ragazzi che sono accusati di averla seppellita immancabilmente vi fanno ritorno.
Il tratto comune di queste imprese cartacee è che hanno l'ambizione, in certi casi la presunzione, di occuparsi di cose se non eterne almeno durature. Scrivono delle idee di oggi e di domani, non dell'evento di ieri, e contemporaneamente si ripesca dal passato ciò che è fatto per durare, come il grande abbeveratoio di pietra di Cormac McCarthy, costruito da un uomo che aveva una promessa dentro al cuore.
La redazione della rivista n+1 è un open space incastrato in un labirinto che pullula di start-up. Difficile stabilire cosa producano se non si parla la lingua dei nativi. E' arredato con oggettistica vintage prodotta "locally" e spuntano casse di birra per ogni evenienza, rigorosamente marca Brooklyn. Siamo a Dumbo, quartiere di artisti e loft stretto fra il ponte di Brooklyn e quello di Manhattan.
La silfide che ci guida si chiama Carla Blumenkranz ed è una delle dieci persone che lavorano a tempo pieno alla rivista. Un'altra è Dayna Tortorici, che aspetta distrattamente su un divano che sembra dell'Ikea ma non lo è. N+1 è uno dei pezzi pregiati di questo rinascimento cartaceo. La rivista è stata fondata nel 2004 da un quadrumvirato di intellettuali - o aspiranti tali - in cui spicca Chad Harbach, autore del romanzo "L'arte di vivere in difesa" (Rizzoli) e ha una diffusione di circa diecimila copie.
Esce con cadenza quadrimestrale e la qualità della carta al tatto e alla vista mette voglia di imparare i segreti perduti della tipografia; Dayna e Carla dicono che "il pubblico è fedele in modo quasi maniacale" e non c'è bisogno di dire che hanno un sito web che viaggia a una velocità completamente diversa.
Si occupano di politica, letteratura, società , arte, idee, con respiro (e pubblico) globale e impatto locale. Il grosso del lavoro consiste nella selezione: "Curiamo un articolo anche per mesi, siamo dei perfezionisti, sia dal punto di vista della lingua sia per quanto riguarda la solidità delle argomentazioni", spiega Carla. Per anni non hanno avuto una sezione di recensione di libri, genere che tende a essere usato per veicolare surrettiziamente le idee del recensore: meglio esprimerle direttamente le idee, senza usare i libri a guisa di schermo.
Un altro aspetto di n+1 comune a molte riviste di questo sottobosco in fermento è la chiarezza ideologica: "Siamo di sinistra - dice Dayna - con uno spettro che abbraccia nostalgici dell'èra Clinton, anime radical e tutte le sfumature nel mezzo". E' la nemesi newyorchese di McSweeney's, pattuglia editoriale e letteraria di San Francisco guidata dallo scrittore Dave Eggers, con il quale i ragazzi di n+1 incrociano le penne spesso e volentieri. Insieme con altre pubblicazioni locali condividono collaboratori, reading, eventi, piccoli (e non più così piccoli) festival letterari che trovano spazio nelle librerie indipendenti che fioccano a Brooklyn, dove le idee dei nativi digitali circolano su carta.
Lo spirito di New York si è trasferito da tempo a Brooklyn, lo dice anche Alec Baldwin. Qui nascono riviste che talvolta incapsulano sommovimenti politici, come The New Inquiry e Jacobin (non un covo di conservatori del sud), riviste nate in ambito esclusivamente digitale e poi passate alla carta, percorrendo il sentiero dei giornali mainstream in senso inverso. The New Inquiry, fondata da una ragazza del New Mexico laureata alla Columbia, ha dedicato un intero numero alla guerra dei droni quando ancora sembrava un argomento oscuro e strampalato.
La ventiseienne di origini nigeriane Uzoamaka Maduka ha fondato lo scorso anno The American Reader, mensile con poche immagini e impaginazione elegantissima, secondo lo stile senza tempo del New Yorker. The Brooklyn Rail, diretto dal pittore Phong Bui, è un mensile a vocazione artistica che esce gratuitamente in città . Fra i membri dell'advisory board c'è anche Paul Auster.
E' un ente non profit che vive di pubblicità , donazioni, eventi e fondi pubblici ottenuti attraverso un rigoroso processo di selezione che premia chi produce contenuti originali. Grazie a un modello di business simile vive anche A Public Space, un gioiello a cadenza quadrimestrale prodotto in uno stanzone nel quartiere di Fort Greene che ha un tono meno hipster di altre redazioni del settore. Alla lavorazione di A Public Space partecipano a tempo pieno soltanto tre persone.
Ashley Martin, un assistant editor con occhi scurissimi e una voce che è quasi un sussurro, sfoglia un numero della rivista e si ferma su un racconto breve, "uno dei migliori che abbiamo pubblicato negli ultimi tempi". Racconta di un uomo che fugge dalla monotonia della sua vita e viene avvelenato in un bar bevendo da un bicchiere che forse non era destinato a lui.
Si troverà davanti a un commissario della polizia a denunciare un omicidio: lui è la vittima. A Public Space punta tutto sui racconti come questo e sulla critica letteraria senza intonazioni accademiche. Tira un migliaio di copie, distribuite esclusivamente per abbonamento a un pubblico ultrafidelizzato che non baratterebbe mai l'esperienza della lettura su carta.
Esperienza, questa è la parola che i nativi digitali della carta usano più spesso. "C'è un rituale irrinunciabile nella lettura - spiega Ashley - nei libri questo concetto è piuttosto chiaro, ma anche per i giornali che si occupano di idee e letteratura funziona allo stesso modo". Non è una forma di nostalgia di un'infanzia cartacea, chi produce riviste come queste è nato in una culla digitale. E' una libera dichiarazione di appartenenza culturale per una generazione che un giorno si ritroverà a raccontare che ai nostri tempi c'erano solo i giornali online e noi abbiamo rilanciato la carta dagli scantinati di Brooklyn.
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