DAGOREPORT - MA QUALE TIMORE DI INCROCIARE DANIELA SANTANCHÈ: GIORGIA MELONI NON SI È PRESENTATA…
Simone Marchetti per La Repubblica
Moda e società non sarebbero le stesse senza la comunità LGBT (lesbiche, gay, bisessuali e transgender). E temi spinosi della contemporaneità , come nozze fra persone dello stesso sesso, adozioni, e più in generale i diritti civili della comunità omosessuale, hanno molto a che fare col modo in cui siamo vestiti.
à la provocazione di una delle mostre più interessanti del momento: A queer history of fashion: from the closet to the catwalk, al Fashion Istitute of Techonolgy di New York. Una storia dell'abito indossato dalle comunità gay dal 1700 a oggi che vuole dimostrare quanto sia profonda l'influenza dell'estetica LGBT in quello che oggi viene considerato come abbigliamento «normale» ed elegante.
Si parte dai dandy e da Oscar Wilde, ovvero quel manipolo di elegantoni fuori dalle regole che oltrepassarono, col proprio vestito, la pericolosa linea rossa che separa la volontà di differenziarsi dalla massa da quella di omologarsi alla stessa. à curioso notare come i loro completi siano diventati poi la divisa di molti gruppi di lesbiche intorno al 1920, a Parigi, nel famoso Le Monocle, il club dove prese il via la moda garçonne arrivata, tale e quale, alle ultime sfilate.
Si prosegue con l'attrice e icona di stile Katherine Cornell (lesbica sposata a un gay) e stilisti degli anni Cinquanta e Sessanta che preferirono nascondere la propria omosessualità e furono gli artefici dell'eleganza femminile. Come Christian Dior e Christobal Balenciaga, di cui Coco Chanel ironicamente disse che abbigliavano le donne nel modo in cui avrebbero voluto vestirsi loro.
L'attenzione, poi, si sposta verso lo stile di strada che si era sviluppato in vie come Castro Street a San Francisco o nei mitici locali di Stonewall a New York. Proprio in un club frequentato da drag queen iniziarono i moti del 1969, era la prima volta che la comunità decideva di chiamarsi gay e chiedeva il riconoscimento dei propri diritti. Fino all'avvento dell'Aids che decimò il mondo della moda e grandi designer come Perry Ellis, Halston, Bill Robinson e Franco Moschino.
Ma quella che sembrò la fine di un'epoca segnò, al contrario, l'incipit della normalità : la mostra parla di «gay pandemia» per descrivere come le tendenze più proibite e disprezzate (dal fetish al sado maso, dall'uso eccentrico del colore alla moda androgina) si trasformarono in un'idea comune di eleganza e di tendenza dall'inizio degli anni Ottanta fino a oggi. I tagli maschili per lei di Giorgio Armani, DSquared e Dior.
I completi di pelle e lacci di Versace e Saint Laurent. Gli abiti fiammeggianti di Alexander McQueen, Balmain e Tom Ford. E i completi da uomo in colori e fantasie forti di Kenzo o Etro: le attuali passerelle sono una prova tangibile del teorema della mostra. Di più: un'altra volta ancora, la moda si dimostra l'anticipatore del nuovo, il laboratorio dove il proibito diventa legge.
Qui, un termine come gay non viene impiegato come un dispregiativo mentre il suo corrispettivo estetico è ormai una consuetudine nel mondo eterosessuale, un classico. A dispetto dell'omofobia.
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