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PAOLO ZACCAGNINI IN MEMORIA DI B.B. KING – “ERA UN NEGRO, NON UN AFRO-AMERICANO. UN NEGRO ORGOGLIOSO DI ESSERE TALE E DI ESSERE DISCENDENTE DI SCHIAVI CHE AVEVANO PERSO LA VITA DOPO INENARRABILI SOFFERENZE” (VIDEO)

VIDEO - U2 - BB KING: WHEN LOVE COMES TO TOWN

 

1. “ERA UN NEGRO, NON UN AFRO-AMERICANO’’

Paolo Zaccagnini per Dagospia

 

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‘’The thrill’’ stavolta e' davvero andato. E ci lascia piu' soli. Sempre piu' soli. Riley B. King, noto come B.B. King, se ne e' andato. A 89 anni. Dicono che avesse dagli 8 ai 15 figli, aveva avuto due mogli ma vi posso assicurare che oggi non solo loro due e loro, 8 o15 che siano, non solo la nera Lucille, la sua chitarra Gibson preferita piangono, siamo in tanti. In silenzio. No, ascoltando la sua musica. Da solo o con tanti dei suoi ammiratori allievi, primo tra tutti Eric Clapton.

 

Non sembra possibile che non ci sia piu', che con la sua debordante fisicita' ci rassicurava. Era nato in Mississippi, da bambino nella "terra della speranza e della libertà", lavorava nei campi di cotone, stando bene attento al Ku Klux Klan. A 12 anni la prima chitarra poi una regalatagli da un suo cugino, Bukka White, grande bluesman.

 

Nel gospel certo, eccelleva, ma la chitarra, la chitarra, la chitarra. Ha suonato con tutto e con tutti e ovunque, ha fatto discepoli ovunque ma senza mai prendersi sul serio. Era un negro, non un afro-americano. Alla sua negritudine ci ha tenuto e teneva sempre tantissimo. Un negro orgoglioso di essere tale e di essere discendente di schiavi che su quella terra avevano perso la vita dopo inenarrabili sofferenze.

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Di lui no, non si puo' dire quale sia stato l'incontro che lo ha segnato perche' la vita del musicista blues di allora era un'avventura. Una grande, spesso pericolosa, avventura. Come dimostra la coltellata che pose fine alla vita del piu' grande bluesman, Robert Johnson.

 

B. B. King aveva 89 anni, soffriva di diabete perche' musica blues, donne e cibo erano state le sue grandi passioni. Il numero di figli lo dimostra, non quello delle consorti, il diabete che lo fiaccava sempre piu' negli ultimi anni. Quella pancia, quel fisico troneggiante che ci rendeva tranquilli.

 

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Tre ricordi soli, l'ho sentito innumerevoli volte. In piazza a Bologna, stavo col mio fratello di sangue blues Roberto D'Agostino a rendere omaggio a Papa', se non ricordo male in una caldissima aribollente piazza Maggiore dove i "du' matti", io e Roberto, abbiamo rischiato sul serio l'infarto per il tanto ballare e dimenarsi e sudare. 

 

Un fresco dopo-concerto a Castiglion del Lago in Umbria. Aveva suonato a Umbria Jazz e a tavola, sotto le frasche che ci coprivano dal caldo agostano, aveva razzolato e spazzato tutto. Poi si era poi concesso un grande sigaro e me ne aveva dato uno, io andavo e vado avanti con i sigari toscani, e avevamo cominciato a parlare di musica e cibo.

 

Io accennavo qualche domanda, volevo sapere qualche aneddoto ma lui B. B., era inamovibile, voleva sapere tutti i segreti della deliziosa cucina umbra. No, non sarebbe stato tipo da Eataly e Mastechef. Come si direbbe a Roma, "parla come magna". No, "magnava come suonava, 'na meraviglia". E poi Parigi, per la prima del ‘’When love comes to town tour’’ degli U2, dove apriva il concerto per i giovani Bono e C..

 

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Ero entrato prima, causa legami familiari, professionali e irlandesi, e mi potei gustare le prove, come mi e' capitato spesso nel mio lavoro. E no, non potro' mai dimenticare gli sguardi, l'ho scritto oggi sul mio blog di Paul, Dave, Adam e Larry jr, seduti ai suoi piedi come scolaretti estasiati davanti a un docente affabulatore. 

 

E i suoi sorrisi e occhi allegri guardando Dave (“The Edge”) mentre inanellva, durante le prove, qualche assolo dove aveva deciso di non controllare piu' il volo delle sue grosse dita. Ogni volte che si sente ‘’When love comes to town’ si sta bene, lo si sente e ci tranquillizza.

 

Anche adesso che non c'e' piu' basta sentire un qualsiasi brano dei suoi innumerevoli album e Cd per averlo vicino. Nel cuore. Che ci ha riscaldato innumerevoli volte. Lascio ai Critici il Giudizio Critico, io sono e voglio essere solo un fan di blues, rythm'n’blues, funk e rock'n'roll. E oggi, vi assicuro, e' un maledetto giorno, Riley, ci mancherai Ma, ahime', ‘’the thrill is gone’’. Stavolta per sempre.

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2 - CON LUI IL BLUES DELLA PIANTAGIONE DIVENNE ELETTRICO

Piero Negri per “la Stampa”

 

Riley B. King, che tutti conoscevano come B.B. (Blues Boy) King, diceva di aver scelto il blues da ragazzo, quando il sabato pomeriggio suonava per strada a Indianola, Mississippi, dove era nato il 16 settembre 1925: quando cantava il gospel, riceveva molti elogi e neppure un centesimo, quando suonava il blues, invece, poteva raccogliere anche 50 dollari.

 

Era figlio di mezzadri: il padre se ne andò presto, la madre morì giovane, fu cresciuto dalla nonna e imparò a suonare la chitarra grazie al pastore della chiesa. Quando anche la nonna morì, era ancora adolescente ma già lavorava a raccogliere cotone e già sognava di entrare dentro quella radio che ascoltava ogni giorno.

Nel 1947, di ritorno dal servizio militare, già sposato, fece 200 chilometri per andare a Memphis e presentarsi al bluesman Rice Miller: la sera stessa lo sostituì in un club e si mise in tasca 12 dollari. Non tornò mai più indietro.

 

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Sono storie di un altro mondo, del quale B.B. King era l’ultimo protagonista rimasto: se ne è andato giovedì, a 89 anni, a Las Vegas, nella bella casa che aveva acquistato con il denaro fatto dagli Anni Sessanta in poi, quando i rockettari lo scoprirono, lo imitarono spudoratamente e lo fecero conoscere ai loro coetanei.

 

Diabetico da vent’anni, ad aprile era stato ricoverato in ospedale, ma aveva chiesto di tornare a casa per morire. B.B King si è sposato due volte, dal 1966, con il secondo divorzio, diceva di non aver avuto più tentazioni di matrimonio. Diceva anche di aver avuto quindici figli da quindici donne diverse (battaglie annunciate per l’eredità): la sua chitarra aveva un nome di donna, Lucille, è quello stato il suo unico, grande amore. Impossibile vederlo, e ora ricordarlo, senza la Gibson. È sempre stato un gran lavoratore: nel 1956 fece 342 concerti, ma duecento l’anno erano la norma, gli ultimi risalgono al 2014.

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È morto ricco, in America una catena di locali in cui si suona il blues porta il suo nome. Ha avuto una quindicina di Grammys, una stella sull’Hollywood Boulevard, la Medaglia d’onore del Presidente Usa nel 2006. Si staglia come un gigante sulla musica degli ultimi cinquant’anni, che ha influenzato in molti modi: i chitarristi elettrici gli devono molto, forse tutto.

Ha suonato con tutti, anche con molti italiani, gli U2 hanno scritto con lui When Love Comes To Town, con Eric Clapton ha fatto un album intero, Riding With The King (uno dei Grammys). Come gli altri grandi (Howlin’ Wolf, Muddy Waters, Willie Dixon, John Lee Hooker) ha portato i canti delle campagne nell’inferno metropolitano ed elettrico della modernità, ed è stato la scintilla che ha generato tutta la musica popolare del Novecento, dal jazz al rock. Dei grandi era l’ultimo: come ha detto Clapton, «questa musica, la nostra, ora fa parte del passato». Fino alla prossima riscoperta, che prima o poi arriverà e che non potrà prescindere dallo stile asciutto ed elegante di Blues Boy King.

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