OCCHIO AL PENN (SEAN): "IO RIBELLE? MENO DI QUANTO OGNUNO DI NOI DOVREBBE ESSERE - HOLLYWOOD? UN POSTO QUALSIASI. A VOLTE NON C’È NIENTE DI MEGLIO CHE SEDERSI IN POLTRONA A NON FAR NIENTE"

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Rocio Ayuso per “El Pais pubblicato da “La Repubblica”

SEAN PENNSEAN PENN

 

A scuola lo chiamavano Gary Cooper, perché diceva solo sì e no. È rimasto parco di parole. Parla poco e, se possibile, con la mano sulla bocca — meglio se con una sigaretta. Sean Penn non ha ancora imparato a godersi l’arte della conversazione. A cinquantaquattro anni, evita il più possibile ogni tipo di intervista. L’ultimo grande ribelle di Hollywood non rende facile neppure questa chiacchierata, anche se il luogo in cui si svolge è idilliaco.

 

Il paradiso si chiama Malibu Beach Inn, un albergone senza anima e nel mezzo della Pacific Highway ma di fronte a una delle spiagge più invidiate d’America. E, cosa più importante per l’attore, vicino casa sua. Un sole di miele prova a farsi strada in un cielo leggermente coperto, per poi specchiarsi su un mare costellato di surfisti e gabbiani. A sud si distingue la silhouette di Los Angeles. A nord, un pontile di legno abbandonato.

 

 

Nella stanza in cui abbiamo appuntamento, una grande brocca di tè freddo al limone con tanto ghiaccio, un posacenere a quanto pare non usato e due press agent personali dell’attore che gli rimarranno accanto a per tutta l’intervista. Le condizioni per intervistare l’attore e regista per due volte premiato con l’Oscar sono ferree. Esclusa ogni domanda personale.

 

Alla prima menzione di Charlize Theron, la donna che ha ridato il sorriso a Penn — oltre che sua nuova musa in The Last Face , il film che sta dirigendo attualmente — stop, l’intervista finisce. Non si può parlare nemmeno dei suoi precedenti matrimoni, né di quello con Madonna né di quello con Robin Wright, e neppure dei suoi due figli, Dylan Frances e Hopper. La nostra conversazione sarà piena di silenzi, di pause in cui Penn smangiucchia il ghiaccio o nelle quali questo attore figlio di attori misura ogni sua parola.

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Non si è mai dedicato ai film d’azione, ma nell’ultimo “The Gunman”, in cui recita a torso nudo e armato fino ai denti, sembra di assistere a una trasformazione come quella di Liam Neeson in “Io vi troverò” (“Taken”). Anche lei folgorato dal nuovo genere definito “geriaction”?

«L’unica cosa in cui si assomigliano i due film che lei cita sono le armi. E ovviamente anche il fatto che entrambi appartengono a un genere intenso, di grande dinamismo fisico, dominato dall’azione. Ma, come dico sempre, Meryl Streep è una bionda estremamente sexy. Eppure questa descrizione non ti dice chi è Meryl Streep».

 

Comunque è un film in cui si spara parecchio, mentre la sua immagine è di solito associata ai suoi impegni umanitari. Può spiegare che rapporto ha con le armi?

Un lungo silenzio precede la risposta.

«Come la maggior parte degli americani, sono cresciuto a contatto con le armi da fuoco. Ho familiarità con le armi. Vuole che parli della mia relazione personale con le armi? O di quello che penso politicamente sul loro uso?».

 

Sono forse due domande collegate.

«È proprio quello che sto dicendo. Non credo che nessuno di noi possa negare la necessità di poter contare sulle armi da fuoco. Detto questo, è vero che le armi fanno molto più male che bene. Negli Stati Uniti, se possiedo una barca (ne avevo una, ormeggiata in porto), la guardia costiera può fare delle ispezioni senza preavviso per verificare che tutto sia a posto, razzi, radio, Gps... Come capitano della nave, ho una responsabilità. Lo stesso dovrebbe accadere con le armi. Dovrebbero togliermi il porto d’armi se dovessero scoprire che le armi non le ho messe in sicurezza.

 

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Dovrebbero obbligarmi a prendere lezioni pratiche, a superare test psicologici. Tutto ciò costerebbe troppo e dunque non è fattibile. Ma questo non significa che si debbano vietare le armi. Come dicono i loro sostenitori, le armi non uccidono. Sono le persone che uccidono. Abbiamo permesso l’uso di uno strumento a persone che forse capiscono l’arma, ma non conoscono se stesse».

 

Parliamo di amicizia. Hollywood sembra sempre un luogo improbabile per farsi amici veri, data la competitività dell’ambiente e la dimensione degli ego.

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«Se guardo alla mia esperienza, Hollywood è un posto come gli altri. La possibilità di stringere o meno amicizie è la stessa. Quando parlo di amici, intendo un gruppo molto ristretto di persone. Poi c’è una cerchia più ampia di persone verso le quali provo affetto e con cui ho avuto un forte legame per un breve periodo. Per quanto mi riguarda il gruppo più intimo di gente con cui mi piace passare il tempo per la metà è formato da amici che risalgono ai tempi della scuola».

 

Amici come Charlie Sheen e Emilio Estevez, ai quali deve in qualche modo la sua carriera?

«Ricordo sempre che giocavo più con loro che con i miei fratelli. Eravamo vicini e siamo stati sempre insieme quando andavamo a scuola a Santa Monica. Naturalmente, il nostro giocattolo preferito era una Super 8. E poi tutto quello che il padre si era portato dalle Filippine dove aveva girato Apocalypse Now . Protesi di mani insanguinate. Cose del genere. Non prendevo troppo sul serio l’idea di fare l’attore. Nella migliore delle ipotesi, pensavo di fare il regista. Ma eravamo sempre a corto di attori. E poi, non sapevo come fare a convincere la gente a darmi i milioni di dollari necessari per fare un film».

 

Non sembra essere cambiato molto. Ci sono voluti più di sette anni prima che si rimettesse dietro la macchina da presa, nonostante i budget molto bassi. Qual è il problema? Mancanza di fiducia?

«Non credo che i miei film siano low cost. Il budget sarà basso per gli standard di Hollywood, ma nel mio mondo io non definisco basso un bilancio di 20 milioni di dollari (18,6 milioni di euro ndr ) ».

sean penn fra le macerie di haitisean penn fra le macerie di haiti

 

Qual è il criterio con cui separa i film in cui recita da quelli in cui fa il regista?

«Mi lasci prima rispondere alla domanda precedente. È vero che di solito passa molto tempo tra un progetto e l’altro, ma la verità è che finora ho fatto tutti i film che volevo e quando volevo. Non c’è nessun progetto che avrei voluto fare e che non abbia portato a termine. Al contrario, ho fatto solo i film che volevo fare. Ci vuole tempo, perché dirigere un film ti distrugge. Mi succhia il sangue.

 

Non si tratta solo di trovare un progetto. Devo essere sicuro che l’amore, l’interesse, mi durerà almeno uno o due anni. È questo il tempo che ti ci vuole, come regista, per completare le riprese. Non è facile. Non dico nemmeno che manchino le sceneggiature. Potrei anche scriverne. Ma devo trovare quell’idea. Dico sempre che se hai intenzione di investire la tua vita in un progetto, è meglio che sia qualcosa di personale».

 

Quali sono i registi che ammira di più? Da chi ha imparato di più?

«Alejandro González Iñárritu. Sicuramente. È uno dei migliori che abbiamo. E pure Clint Eastwood. Anche Martin Scorsese mi ha aiutato. La mia scuola sono gli oltre sessanta film che ho fatto, contando tutta la mia filmografia. E sono pochi a poter dire altrettanto. Ho avuto il posto migliore alle lezioni che mi hanno dato Alejandro, Clint, o Terry Malick quando ho lavorato con loro. Sono molto diversi tra loro e ognuno ha il suo modo di vedere le cose. Ma non ti annoi mai con nessuno di loro».

sean penn charlize theron a cannessean penn charlize theron a cannes

 

Non ha risposto alla domanda che le ho fatto prima, circa i criteri con cui separa i progetti in cui lavorerà come attore o come regista. Inoltre in più di un’occasione, ha parlato del suo desiderio di ritirarsi dal cinema, dal lavoro di attore. Lo pensa ancora?

«Una volta Dustin Hoffman mi ha detto che la mia non era stanchezza, ma delusione. Sono cresciuto con il miglior cinema, il menù che si serviva negli anni Settanta comprendeva alcuni dei film più straordinari mai realizzati a Hollywood. Io non sono stanco di Hollywood.

 

Semplicemente, la mia vita è piena di altre cose che mi tengono occupato. Possono essere motivi personali o l’altro lavoro che faccio. E poi, non sono uno che va nel panico quando non lavora. A volte non c’è niente di meglio che sedersi in poltrona a non far niente. È la mia versione della siesta. Un pisolino che a volte si protrae per qualche anno» .

 

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Si riferisce a quei momenti in cui le piace isolarsi dal mondo?

«Come diceva Bob Dylan, non mi considero un artista isolato. Piuttosto, un attore esclusivo. Ecco come mi sento quando sono al mio meglio. Esclusivo. Unico. In forma. Ma appena abbasso la guardia, mi si intrufola qualche idiota dalla porta. Per questo mi isolo di più quando mi sento stanco, quando la compagnia di chi mi circonda mi annoia. Quando mi accade, sono presente e sembro disponibile, ma in realtà non ci sono».

 

A proposito dell’«altro lavoro». Sono passati cinque anni dal terremoto di Haiti, che la portò a impegnarsi nel ruolo di ambasciatore umanitario itinerante. Pensa che l’isola stia uscendo dalla crisi?

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«La ricostruzione di Haiti dopo il terremoto è straordinaria, ma ora abbiamo tutti i problemi che esistevano prima del terremoto. La povertà, la disoccupazione, la mancanza di un prodotto esportabile, la corruzione... Un problema come la corruzione sarebbe facile da risolvere con la presenza di una classe media.

 

Ma finché la corruzione mantiene questo abisso tra i pochi ricchi e i tanti che non hanno nulla, finché non si consente la formazione di una classe media, la popolazione è già troppo impegnata a tentare di sopravvivere giorno per giorno per mettersi a fare politica, per far sentire la propria voce. Il panorama sta cambiando molto e l’interconnessione di cui godiamo oggi sarà utile. Soprattutto nelle economie emergenti dei paesi in via di sviluppo. Chi non ha voce potrà farsi sentire, potrà collegarsi ad altri» .

 

Esalta, dunque, le virtù di internet?

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«Io? Non ho né Twitter né Facebook. Direi che praticamente non ho nemmeno un portatile. Vedo il vantaggio della connettività nella coesistenza degli uomini, ma vedo anche che nelle economie più ricche internet è usato più per delle sciocchezze che per l’informazione».

 

Non è stanco di essere il ribelle di Hollywood?

«Non credo di essere così ribelle. Il fatto è che la società che mi circonda è sempre più soddisfatta di se stessa, dell’ordine stabilito delle cose. Oggi non c’è bisogno di ribellarsi molto per essere considerato un ribelle. E sì, arriva un momento in cui puoi sentirti solo e frustrato.

 

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Soprattutto, quando fai parte di questa cultura dell’intrattenimento che esige risposte veloci e soluzioni ancora più veloci; che cerca dei risultati immediati di fronte alle esigenze del mondo che ci circonda; una cultura che valorizza sempre di più ciò che mi interessa di meno. So che i grandi cambiamenti si verificano nel lungo termine e che dobbiamo avere una visione del futuro. La faccenda del ribelle, quindi, dipende molto da come si guardano le cose. Mi sento molto meno ribelle di quanto credo che ognuno di noi dovrebbe essere».

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