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Livia Manera per il "Corriere della Sera"
Parigi, le dieci di sera. Accendo la televisione su France 2 e sento Alain Finkielkraut, che è lì per presentare il suo nuovo libro sull'amore in letteratura «Et si l'amour durait», introdurre il «concetto spinoziano» di «passion triste» (restate con me), che oggi si troverebbe sempre più spesso in opposizione a quello di «allegria militante». Beh, mi dico: siamo in Francia.
Ma la mia attenzione si concentra quando Finkielkraut sceglie di portare a esempio di «passion triste», il documentario mio e di William Karel «Philip Roth sans complexe», andato in onda qualche giorno prima su Arte. Finkielkraut dice di non averlo visto, e quindi di non potere esprimere un giudizio. Ah sì, mi dico, allora chissà perché ne parla. «Ma Philippe Sollers lo ha descritto sul Journal du Dimanche come il ritratto di un rimbambito che parla della morte, accompagnato da una musica dolorosa di Mahler e dalla testimonianza di due donne vecchie e molto brutte, una delle quali, aggiungeva, è l'iper nevrotica Mia Farrow».
A questo punto vorrei dare un'immagine del set della trasmissione «Avant-premières» che ha ospitato questo intervento: un salotto dai divani rosa shocking circondati da un pubblico gaudente. Sui divani, una giovane conduttrice piuttosto su di giri, due scrittori - Jean d'Ormesson e Alain Finkielkraut - e «quattro moschettieri della cultura» (sic): una biondina accanto a Finkielkraut, una rossa accanto a d'Ormesson, e due maschi, il cui compito condiviso è quello di porre domande agli ospiti e pungolarli sulle risposte.
Ma l'osservazione di Finkielkraut/Sollers sulle donne brutte e vecchie che rovinano l'immagine «Philip Roth le Roi», come lo ha appena chiamato il Nouvel Observateur in una copertina, passa del tutto liscia. E così pure il fatto che Finkielkraut stia commentando con parole imbarazzanti e nemmeno sue un film che non ha visto. La puntata, intitolata «La Droite qui pense» continua nella forzata festosità delle trasmissioni pop francesi. E io mi dico: se questa è la Destra che pensa, chissà come sarà la Destra scema.
Devo dire che ha un vantaggio, Parigi, rispetto ad altre città . à come un grande laboratorio di culture comparate. L'episodio di cui sopra, per esempio: il mio primo pensiero è che in America avrebbe comportato la radiazione di Finkielkraut e di Sollers dall'albo degli intellettuali seri; e persino nell'Italia dei nani e delle ballerine voglio credere che più di una giornalista intelligente avrebbe fatto pelo e contropelo a un'osservazione così pateticamente maschilista come quella sulle testimoni brutte e vecchie «tra cui l'iper nevrotica Mia Farrow», tanto per non risparmiarci un cliché.
Qui in Francia, invece, le moschettiere che sono lì per intervenire, tacciono. «Questo ti dimostra quanto lo sciovinismo maschile sia ancora radicato nella società francese», mi scrive Maia de la Baume, trentenne giornalista francese che lavora alla sede parigina del New York Times. «Pensavo che gli uomini intelligenti avessero superato certi tipi di commenti. Mi fanno rabbia ma mi fanno anche una terribile tristezza», sbotta la scrittrice e reporter di guerra Janine Di Giovanni.
E vedo che Jenny McPhee, romanziera americana che ha studiato a Parigi con la semiologa e psicanalista legata a Sollers Julia Kristeva, riferisce l'episodio sul suo blog dicendo che «è una vergogna che a certi dinosauri della cultura sia ancora concesso di inquinare i media con la loro misoginia». Si può sempre contare sulle femministe americane.
Il problema, per me che osservo da outsider la società francese (tre anni fa mi sono trasferita a Parigi), è che questa misoginia non è soltanto un tratto di volgarità intellettuale che le donne francesi sopportano con un certo indifferente sdegno.
à anche è uno dei sintomi di quanto la Francia sia rimasta in questi anni indietro, arroccandosi nella difesa di un'identità che da un lato le ha permesso di mantenere l'autonomia da una certa nefasta influenza americana (la gente non è obesa, i cinema non puzzano di pop corn rancido e i tutti preferiscono le brasseries ai McDonald's), ma dall'altro le ha impedito di immettere nuova linfa nella propria cultura e di rinnovarla.
Con il risultato - per parafrasare un'immagine dello storico inglese Tony Judt - che la fioca luce che illumina molti degli intellettuali francesi oggi, somiglia a quella di una stella lontanissima la cui fonte originale è ormai estinta. Da noi si raccomanderebbe loro la proverbiale gita a Chiasso.
Quando la New York Review of Books ha organizzato lo scorso giugno tre giorni di dibattito in una sala di Science Po, per parlare di argomenti come il futuro della Socialdemocrazia, gli errori della politica estera americana e il rapporto tra gli intellettuali francesi e il potere, portando studiosi del calibro di Richard Sennett e Ronald Dworkin ad alimentare una discussione di un livello intellettuale e di una libertà di pensiero emozionanti, non ho visto francesi in giro salvo due o tre eccezioni. E mi è rimasto il sospetto che anche quei due o tre sarebbero rimasti a casa se il padrone di casa Bob Silvers non li avesse coinvolti a parlare sul palco.
Per tornare a Finkielkraut, Sollers, Philip Roth e le donne. «Mi sono detto: cosa?!», è saltato su Finkielkraut dopo aver citato l'insofferenza di Sollers davanti alla decrepitudine che contamina il film «Philip Roth sans complexe». «Si vuole colpevolizzare l'inquietudine di quest'uomo davanti alla morte, come se effettivamente il conflitto ultimo tra progressisti e reazionari potesse riassumersi nella battaglia tra il fronte dell'allegria e quello della tristezza?» (restate con me).
La moschettiera rossa lo interrompe con una domanda a D'Ormesson sull'editoria digitale. Via. Qualunque cosa volesse dire Finkielkraut si passa ad altro. E a me rimane il dubbio che se in Francia «l'allegria militante» è progressista e la «passion triste» reazionaria, io devo avere fatto senza saperlo un film di destra. Di destra, mi dico: un momento. Gli ultimi dieci minuti. La gente all'anteprima ha riso quasi tutto il tempo, quindi i primi quarantadue minuti devono essere di sinistra.
Bisogna che lo racconti a Roth, penso. Ma cambio presto idea. Perché mi viene in mente che quando sul set mi hanno chiesto di tradurgli la domanda se abbia ancora un senso, oggi, essere un «écrivain engagé», Roth è rimasto un attimo zitto, e poi, tra l'incredulo e lo spazientito, ha risposto: «I don't understand the question». Invece secondo me l'aveva capita. Solo che era come se gli arrivasse da Plutone.
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