
DAGOREPORT - DELIRIO DI RUMORS E DI COLPI DI SCENA PER LA CONQUISTA DEL LEONE D’ORO DI GENERALI –…
Paola Zanuttini per “la Repubblica”
il film ogni maledetto natale con corrado guzzanti
Corrado Guzzanti non ha buona fama come soggetto da intervistare: schivo, laconico, riservato. Caratteri apprezzabili sul piano umano, un po’ meno davanti a un registratore. Accingendosi all’impresa, capita di leggere negli occhi dei compagni di lavoro, e dell’ufficio stampa, un’ombra di preoccupazione, o compatimento. Addio, si va.
Inaspettatamente, stavolta sembra quasi loquace. La nuova agente dice che l’ha addomesticato, lo porta anche alle feste. Epperò c’è un problemino: non ha ancora visto il film che è il pretesto di questa intervista, ‘’Ogni maledetto Natale’’, nel quale furoreggia. Mi chiede com’è: laconicamente, si può definire un antipanettone con vezzi e vizi da cinepanettone. Di sicuro successo.
Firmato da Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo, già sceneggiatori e registi di Boris, serie televisiva in qualche modo epocale frequentata episodicamente dal nostro, il film racconta le traversie di due ragazzi che, trafitti da colpo di fulmine in una Roma già piena di luminarie, vedono il loro nuovo amore minacciato dall’incombere del Natale. Ricorrenza funestissima che libera i peggiori istinti nel luogo deputato a celebrarla, la famiglia.
Quella di lei è contadina, arcaica e selvaggia, quella di lui ricca sfondata, venale e nevrotica. Con un dispositivo più teatrale che cinematografico, gli attori, molti dei quali già colonne o guest star di Boris, sostengono ruoli simmetrici nelle due famiglie. Guzzanti no: in campagna è uno zio iracondo e rancoroso, mentre nei quartieri alti è l’irresistibile Benji, cameriere filippino servile, cinico, meschino, di orientamento liberal-liberista.
i personaggi di corrado guzzanti
«Sì, è un fan pazzesco di Monti, più grande statista di tutti i tempi che però trovato tante difficoltà». Questa affermazione di Guzzanti cade nel vuoto, perché nel film non c’è traccia di Monti. «Ah, l’hanno tagliato?». A questo punto, visto che sul prodotto finito è un po’ vago, conviene parlare della lavorazione.
«Ho sempre dovuto scrivermi da solo i personaggi, lavorarci sopra, ma trovo splendido recitare e basta, molto meno faticoso. Non mi dispiacerebbe fare solo l’attore: quest’anno ho girato anche un film serio, produzione americana, un remake di La piscina. Ero un maresciallo». A questo altro punto conviene precisare che Corrado Guzzanti è stato ribattezzato Oblomov, come l’indolente eroe del romanzo di Goncarov. Non ricorda chi gli ha affibbiato il soprannome.
Continuando sul film: «È stato divertente, soprattutto per chi aveva gli anticorpi di Boris, osservare l’iniziale straniamento degli attori non abituati a lavorare con tre registi, convinti peraltro di fare tre film diversi.
C’era chi pensava a un film grottesco satirico e chi a una grande commedia sentimentale. Quindi erano molto diverse anche le indicazioni: Senti, qui anche di meno: il personaggio sta soffrendo, fai arrivare questo dolore. Poi arrivava l’altro: Che stai facendo? Ti avevo detto di zompare! Era come se i fratelli Coen fossero tre, e questi non sono neanche parenti, non so se la cosa agevoli».
Benji, imperturbato dal suicidio di un altro cameriere che guasta la festa ai padroni, e preoccupato solo per la riuscita del di pranzo di Natale, è una partenogenesi di Ariel, il colf, sempre filippino, interpretato da Marco Marzocca, che vide la luce nel 2002 in un programma guzzantiano quasi clandestino, Il caso Scafroglia.
«L’ispirazione veniva da un filippino che aveva lavorato da me: Giovedì non posso venire perché purtroppo mia figlia ha partorito in mare. Poi spuntò anche il cognato Gnol, Ariel voleva procurargli a tutti i costi il permesso di soggiorno. Ma, subito dopo averlo ottenuto, Gnol doveva tornare nelle Filippine per un’emergenza: Cognato mia sorella avuto incidente motorino e pure rubato telefonino. Quello ero io». Andatevelo a cercare su YouTube e vedrete che è identico a Benji, senza livrea.
Dato che il personaggio è politicamente molto scorretto, vanno messe in preventivo le accese rimostranze delle anime belle. Guzzanti si prepara a schivarle con lo stesso cinismo di Benji: «Se la prendano con gli autori, io l’ho solo caratterizzato un po’».
A un comico serio non puoi dire che è razzista perché, se è ben fatta, la satira investe su un personaggio tanto studio e attenzione che diventa quasi amore. Lui poi non la considera razzista, come parodia. Trova invece molto ipocrita la correttezza politica, una falsa buona maniera. Dice che nella realtà sono tutti razzisti e negarlo non racconta come stanno le cose. Benji è solo un po’ troppo appiattito sul modello dei padroni: è fiero di lavorare per loro, vuole che passino un buon Natale.
sabina guzzanti a servizio pubblico
E il Natale in casa Guzzanti era buono? «Mai avuto Babbo Natale. Siamo di tradizione romana befanizia e questo mi ha reso un disadattato a scuola: il 25 i miei compagni mi elencavamo al telefono i regali ricevuti, dal Meccano in giù, e io non avevo niente da dire fino al 6 gennaio. Tenendo conto che la scuola ricominciava il 7, mi restavano 24 ore per godermi i giocattoli nuovi. Però mio padre si impegnava molto sulle lettere che ci lasciava la befana: le scriveva in un romano sgrammaticatissimo: Corado ti ho comprato er pupazo ma non è quelo che volevi purtropo».
Quando i genitori si sono separati, Sabina e Corrado hanno mantenuto la tradizione con Caterina, la sorella più piccola. Che però chiedeva perché dei pacchi avevano la carta di un negozio e altri no. I fratelli arronzavano scuse, convenzioni stipulate dalla Befana con alcuni commercianti. Cabaret famigliare. Ma di teatrini ce n’erano altri. «Le gigantesche magnate. Di rigore, allora come oggi, le tartine e il risotto al salmone.
Giravano anche certi liquori come lo Stock 84, arrivato in enormi confezioni regalo oggi estinte. Era un po’ una palla, c’erano zii che faticavo a riconoscere, sbagliavo i nomi, perché la nostra è una famiglia molto diasporata». Anche il presepe era una faccenda impegnativa, sfida ingegneristica fra parenti, soprattutto con lo zio Elio, futuro ministro della Sanità.
E Paolo Guzzanti in veste di capofamiglia sentenziava sulla carta delle montagne o i ruscelli di stagnola. «Noi tagliavamo le casette di cartone, e le statuine erano sempre di grandezze diverse. Un’angoscia da saggio di fine anno».
Le storpiature della Befana, i nomi sbagliati degli zii, le disquisizioni surreali, o eduardiane, sul presepe e poi, non molti anni dopo, i suoi personaggi che spappolano la lingua e il discorso, producendo un caos verbale sintomatico di altre confusioni. «È un vecchio trucco, trovare neologismi e espressioni inesistenti è sempre appartenuto ai canoni della comicità. Poi l’italiano puro è ancora abbastanza artificiale.
Ogni zona, anche poco distante, si crea un suo dizionario delle parole di cui c’è necessità. E gli sbagli li fanno tutti. C’è pure il laureato che mi dice sono un tuo fans, errore da scoppola in qualsiasi lingua. A Roma si è cominciato a usare piuttosto che non in funzione avversativa, ma come sinonimo di anche. È tutto un lost in translation».
Forse piuttosto che entrerà nel lessico di uno dei suoi personaggi. Che sono di due tipi: imitazioni di figure fin troppo pubbliche, o sintesi di mille avvistamenti ed esperienze. «Quelo, per esempio, viene dall’aver avuto una sorella buddista, Sabina, che ha tentato a lungo e inutilmente di convertirmi, ma anche da un’antica fidanzata new age in fissa con La profezia di Celestino. Sono un iperateo incuriosito dalla spiritualità, infatti anche uno degli ultimi, Padre Pizarro, parla dello Ior come della cosmogonia: È la stessa cosa, ‘na partita de giro».
Guzzanti non ama riprendere i vecchi personaggi, fermi in quel tempo che va dai Novanta ai primi anni del Duemila. Ha fatto un’eccezione per Lorenzo che, da studente fallimentare e cazzarone è diventato padre di Luco, un disastro umano, l’involuzione della specie: la tragedia di una generazione, che fa molto ridere, amaramente. «Tante madri mi hanno scritto che si sono riconosciute nel dolore di Lorenzo». Non è chiaro se questa è una battuta.
Gli ultimi politici cui si è dedicato sono Tremonti e, per un attimo, Di Pietro. Un’altra epoca. È in pieno disamore per la satira politica. Dice che nei momenti di censura più cupa può offrire una lettura della realtà che altrimenti non passerebbe, ma di regola è solo una forma di intrattenimento, magari alto, da praticarsi preferibilmente nei teatri off. «Non siamo profeti, ma gente che si informa, si fa un’ idea e la esprime. Dai nostri tempi di Avanzi o di Tunnel, è molto cambiata l’Italia e anche la satira: allora era proibita, rischiosa, ma dalla seconda fase dell’ultimo governo Berlusconi si è diffusa ovunque, sui social network, in tv. Per un politico è un titolo di onore essere satireggiato, anche violentemente. Ma io ho sempre pensato, anche quando i miei colleghi sono diventati più aspri e aggressivi, che se quelle cose le dici facendo crepare dal ridere hai vinto, se invece abbassi la parte comica per essere più caustico non fai bene il tuo lavoro. È una questione di punti di vista».
Abbastanza diverso da quelli di sua sorella Sabina che, nel lontano 2003, ai tempi di Raiot fu accusata proprio di questo. «Era un clima da guerra civile, in assoluta buona fede Sabina ha offerto un’arma per farsi dare addosso da chi non la tollerava: Ti abbiamo pagato per facce ride e non ce stai a fa ride. Oggi invece c’è stata un’inversione o un’invasione di campo, sono i giornalisti che vogliano facce ride. E io che sto diventando anzianotto mi irrito: prima raccontami cosa ha detto Napolitano ai giudici e poi fai le tue battute».
Il Renzi di Maurizio Crozza lo diverte molto, però gli piacerebbe un po’ meno scemotto e più minaccioso. E teme che non serva più tanto: «La parte comunicativa di Renzi contiene già la sua autosatira, non fa niente per nascondere quella sua parte di linguaggio che ci ricorda Berlusconi. Sarebbe più curioso che qualcuno andasse a indagare su quel che ha scritto De Bortoli dei suoi rapporti con la massoneria».
L’anno prossimo saranno 50. Ai nostri tempi l’ha detto più volte. Nostri indica il gruppone giovinastro e scanzonato di Avanzi, pure quello diasporato. E tempi una storia d’Italia finita. Guzzanti non ha mai fatto mistero delle sue melanconie: come se la passano in questa fase? «Loro benissimo, io un po’ meno. Ma ho imparato a conviverci, sono molto utili per scrivere, a volte producono delle vere perle».
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