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Bruno Ruffilli per "la Stampa"
All'E3, la più grande fiera mondiale dei videogame di Los Angeles, tra giochi, console, accessori, c'era uno spazio per l'arte. Una mostra con stampe digitali su tele in grande formato: Into The Pixel, che arriva quest'anno alla decima edizione. C'è anche un concorso per eleggere i migliori esempi di arte nel videogioco, organizzato dall'Academy of Interactive Arts & Sciences e dall'Entertainment Software Association; duecento i partecipanti nel 2013, sedici i vincitori, di cui presentiamo alcuni lavori, tratti da titoli appena usciti o previsti a breve.
Intanto, al Moma di New York è in corso un'altra mostra dedicata ai videogiochi (Applied Design), mentre allo Smithsonian American Art Museum di Washington si è chiusa da poco The Art Of Video Games. Così i giochi stanno conquistando le sale dei musei, un po' per moda, un po' per nostalgia: oggi - soprattutto negli Usa - curatori e responsabili fanno parte di una generazione cresciuta con Super Mario e Doom.
Nei musei si punta sull'interattività e sulle nuove forme di relazione, mentre all'Electronic Entertainment Expo si sono viste citazioni di Klimt (in Transistor) e rielaborazioni di impressionisti francesi (in Rain, con musiche di Debussy). Spiazzanti i rimandi al cinema di Leni Riefensthal in Wolfenstein - The New Order, dove i nazisti vincono la seconda guerra mondiale e conquistano il mondo (nel trailer si sostituiscono pure ai Beatles sulle strisce pedonali di Abbey Road). Un corto circuito logico è il robot di Destiny, stanco e sfiduciato dopo l'ennesima battaglia: come un uomo, più di un uomo.
I videogame si muovono tra realtà e magia: chi disegna i personaggi e inventa i loro mondi fantastici lavora spesso non con computer e pixel, ma con pennelli e aerografo, come i grandi illustratori di qualche decennio fa. Richiedono investimenti colossali e vivono di pubblicità aggressive, ma nei casi migliori sanno conservare un'anima. Che vive proprio dove l'arte incontra la tecnologia.
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