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QUANDO UNA SETTIMANA ERA DI 8 GIORNI - DA GIOVEDI’ IN SALA, PER SOLI 7 GIORNI, IL FILM “EIGHT DAYS A WEEK” DI RON HOWARD SUI BEATLES - LENNON: “C’ERA UNA NAVE ALLA SCOPERTA DEL NUOVO MONDO E SULL’ALBERO MAESTRO C’ERANO I BEATLES CHE DICEVANO: TERRA!” - HOWARD E QUELLA VOLTA CHE INCONTRO’ LENNON SUL SET DI “HAPPY DAYS”: “MA ERA VENUTO PER FONZIE” - VIDEO

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1. I QUATTRO DI LIVERPOOL QUEI BRAVI RAGAZZI CHE CREARONO IL POP

Gino Castaldo per “la Repubblica”

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Ormai è fin troppo chiaro. Il monumento che il nuovo millennio sta costruendo intorno ai Beatles è colossale, smisurato, di gran lunga superiore a ogni aspettativa. E dire che, come racconta Richard Lester nel delizioso Eight days a week di Ron Howard (in uscita nelle sale per una settimana a partire da giovedì), quando la United Artists gli commissionò il primo film dedicato al gruppo, gli chiese un prodotto buono, ma veloce e a basso costo.

 

L’importante era farlo uscire entro luglio (era il 1964) perché molto probabilmente i Beatles sarebbero finiti con l’estate. Mai previsione fu più errata, ovviamente, e il film, A hard day’s night, fu solo uno dei tanti capitoli della più grande storia musicale mai raccontata, eppure erano in molti in quel momento a prevedere che quella folle e incandescente meteora potesse svanire da un momento all’altro.

 

Quanto durerà? Si domandavano in molti, e almeno in parte se lo chiedevano anche gli stessi Beatles. Del resto un fenomeno del genere non si era mai visto prima, nessuno era preparato, nessuno sapeva collocarlo, prevedendo il seguito della storia.

 

Il film racconta con dovizia di particolari, con immagini già note e altre inedite, l’euforia dei primi anni, di quella meravigliosa e irripetibile “epidemia” (come la chiamavano, preoccupati, i benpensanti) che aveva contagiato l’intero universo giovanile.

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Ci ricorda e descrive le incredibili, vertiginose proporzioni del fenomeno, spiega perché la meteora non svanì nello spazio di una stagione e la spiegazione è allo stesso tempo semplice e struggente. I Beatles ce l’hanno fatta perché erano brave persone, intelligenti e empatiche, perché non si sono mai accontentati di quello che avevano appena realizzato, perché sono stati capaci di voltare pagina decine di volte, nel giro di pochissimi anni, perché erano uniti e si sostenevano l’uno con l’altro.

 

Facile, potremmo dire, fare un bel film avendo a disposizione quello scintillante materiale, che sappiamo bene essere irresistibile, da qualsiasi angolazione lo si prenda, materiale ottenuto col benestare degli stessi Beatles: ovvero dei due sopravvissuti, Ringo e Paul, e delle vedove Harrison e Lennon, anzi prodotto dalla Apple, con autostrade aperte a ogni indagine storica.

 

Ma Howard ci mette passione, è onesto almeno quanto la storia che vuole raccontare, e in un certo senso mette ordine in quella aggrovigliata matassa che ha deciso il destino della cultura pop dei nostri tempi. E lo fa seguendo una sorta di diario di bordo delle esibizioni dal vivo, tra urla, pericoli, estasi collettive e il progressivo estraniamento dei quattro da quella abnorme e insostenibile pressione.

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Belle le interviste aggiuntive, soprattutto quelle a Whoopi Goldberg e alla storica Kitty Oliver che mettono in luce un aspetto meno analizzato della vicenda, ovvero il ruolo del gruppo nei conflitti razziali che stavano devastando l’America nel 1964.

 

Erano giovanissimi working class della periferia inglese eppure quando seppero che in un loro concerto nel sud degli Stati Uniti, a Jacksonville, sarebbe stato adottato un sistema segregazionista, dichiararono che questo non sarebbe mai avvenuto a un loro concerto. E l’ebbero vinta. I neri entrarono liberamente, e per alcuni di loro fu il primo contatto con i bianchi in pubblico.

 

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Una canzone dopo l’altra, un concerto dopo l’altro, la storia cresce e sembra disegnare la conquista di un territorio nuovo. Lo spiega Lennon, in un’intervista del 1975 citata nel film: «La sensazione è che ci fosse una nave alla scoperta del Nuovo Mondo e che sull’albero maestro ci fossero i Beatles e dicevano: terra!».

 

2. RON HOWARD: “DA SUPER FAN ORA SPIEGO CHI ERANO AI MILLENNIALS”

Silvia Fumarola per “la Repubblica”

«Ho girato il documentario da appassionato, scegliendo le immagini che mi hanno colpito di più». Ron Howard si è lasciato alle spalle kolossal come Apollo 13 e Moby Dick e si è immerso nel mondo dei Beatles «da fan, non da esperto, guardando ore e ore di filmati e filmini».

 

Howard, da regista è padrone della storia, girare un documentario è diverso.

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«Sì è un approccio completamente diverso, lavori su materiali che già esistono. Sei costretto a scegliere — è la cosa più difficile perché t’innamori di un’immagine — e a stare nei tempi. Poi ho trovato interessante fare le interviste».

 

Ha scelto Sigourney Weaver e Whoopi Goldberg.

«Buffo, no? Sigourney confessa di essere stata innamorata di Lennon da ragazza. Whoopi, grande fan, dice che “i Beatles non erano bianchi, non erano di nessun colore”».

 

Per lei i Beatles cosa avevano di diverso?

«Erano puri. Il loro è un percorso artistico fatto di creatività e integrità. Il film, per come lo vedo io, è un viaggio nel talento e nell’intelligenza di quattro ragazzi che avevano il dono di saper raccontare, autentici storyteller».

 

A chi dedica “Eight days a wek”?

«Ai fan, ma soprattutto ai Millennials che conoscono le canzoni ma non quest’avventura artistica irripetibile. I Beatles avevano il dono raro della creatività, m’interessa far conoscere il contesto in cui nasce il mito. Hanno cambiato la cultura popolare e il modo di vivere la musica».

 

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Li ha conosciuti?

«Paul McCartney l’ho conosciuto agli Oscar. Ringo Starr era venuto sul set di Happy days, credo nel 1978. Lui non se lo ricordava, io invece sì. Per me era un mito. È rimasto un gentleman ed è sempre una persona divertente. Avevo incontrato anche John Lennon col figlio Sean, ma non erano venuti sul set per me: volevano conoscere Fonzie».

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