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Dario del Porto per “la Repubblica”
Ossessionati dalla morte come i miliziani del Califfato. Sono i ragazzi che si fanno la guerra nel centro storico di Napoli, quelli che avevano deciso di «rottamare» i vecchi boss per prendersi il cuore della città e invece sono finiti al cimitero oppure in galera. Li descrive così, nelle motivazioni della sentenza al processo sulla cosiddetta “paranza dei bambini” di Forcella, il giudice Nicola Quatrano, che ha chiuso con 43 condanne il giudizio istruito dai pm Henry John Woodcock e Francesco De Falco con il procuratore aggiunto Filippo Beatrice.
«Un filo sottile ed esistenziale lega i giovani che scorrono in armi nel centro storico di Napoli per uccidere e farsi uccidere e i militanti della Jihad. Entrambi sono ossessionati dalla morte, forse la amano, probabilmente la cercano, quasi fosse l’unica chance per dare un senso alla propria vita e vivere in eterno», scrive il giudice, negli anni ‘90 pm di punta della Tangentopoli napoletana, oggi molto impegnato sul fronte dei diritti umani.
Il magistrato si sofferma anche sul look di questi ragazzi che, scrive, «si distingue da quello classico camorrista e assomiglia piuttosto ai modelli che i media sociali hanno reso “virali” in tutte le periferie del globo, quelli per intenderci delle gang giovanili o dei cartelli sudamericani ». Ma i loro «modelli e stili di comportamento», si legge nella sentenza, «hanno preso qualcosa anche dall’emergere impetuoso dell’estremismo islamico».
Un’influenza che si è manifestata «non certo sul terreno dell’ideologia e della religione», quanto piuttosto «nell’aspetto esteriore diversi imputati per un certo periodo hanno esibito una folta barba “alla talebana”, frutto anche questo, probabilmente, del lavoro dei media sociali». E poi c’è quel «filo sottile ed esistenziale » rappresentato dalla ricerca della morte. Il giudice cita la tragica parabola di Emanuele Sibillo, definito «la vera mente del gruppo, dotato di intelligenza e vero carisma », ucciso in un agguato all’età di soli 19 anni, «dopo una vita breve e intensissima».
Emanuele, argomenta il magistrato, «oggi è l’eroe eterno dei vicoli e delle stradine del centro cittadino, venerato quasi come San Gennaro sull’altare che la famiglia ha eretto in sua memoria nell’androne del palazzo dove abitava». Il fratello, Pasquale detto Lino, è stato condannato a 16 anni di reclusione, mentre agli altri imputati sono state inflitte pene fra i 2 e i 20 anni. Ripercorrendo le fasi del processo, il giudice ricorda come l’obiettivo del gruppo fosse «un progetto di rottamazione dei vecchi esponenti di vertice della camorra».
Piano naufragato, secondo il magistrato, anche per «l’efferatezza del loro modo di fare» e per la scelta di «ricorrere a gesti sanguinari e violenti». Un modo di agire che «li ha resi invisi, in primo luogo, agli abitanti dei loro stessi quartieri». Le storie dei giovanissimi criminali napoletani, più volte raccontate nei reportage di Roberto Saviano, sono anche al centro del docufilm Robinù, realizzato da Michele Santoro con Monica Oliva e Micaela Farrocco e hanno ispirato nei giorni scorsi le riflessioni del pm Woodcock che, conversando con Repubblica, aveva invitato la borghesia cittadina «ad uscire dall’isolamento».
Nella requisitoria pronunciata al processo sulla “paranza dei bambini”, il pm Woodcock aveva anche espresso l’auspicio «che a questi ragazzi, una volta scontata la pena, possa essere data una seconda opportunità». Il sogno di una vita normale, per salvare chi è ossessionato dalla morte.
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